Massimo recalcati: «esprimete un desiderio»

Da Colorefiore @AmoreeDintorni
  •  Viviamo in un mondo “senza sale”, liberi di avere tutto. Per capriccio più che per interesse. Ma per essere felici c’è solo una strada, dice lo psicoanalista Massimo Recalcati: «Ritrovare lo slancio di volere davvero».
    Abbiamo tutto. O, comunque, tutto è lì a portata di mano. L’unica cosa che ci manca è il desiderio. Sì, magari vorremmo una certa borsa, un’altra casa, una macchina più potente e, già che ci siamo, anche un amante.
    Ma questo non è desiderio: è compulsione. È il motore, prepotente, dell’infelicità, perché ti porta sempre al punto di partenza: volere un’altra cosa, essere un’altra persona. A sostenerlo, nel suo ultimo saggio Ritratti del desiderio (Raffaello Cortina), è lo psicoanalista Massimo Recalcati.
    Dottor Recalcati, partirei da lei, se me lo consente. Quanto ha “desiderato” scrivere questo libro?
    «L’ho scritto per celebrare il trentennale della morte del mio maestro, Jacques Lacan. E perché penso che “desiderio” sia una parola inflazionata e usata a sproposito».
    Veramente io le ho chiesto di lei, del suo scrivere: è desiderio o compulsione?
    «Per me la scrittura è una necessità antica, nata quando guardavo mio padre dipingere le scritte sulle corone dei fiori destinate ai defunti. Quando parlo e quando scrivo ho sempre in mente il bambino idiota che sono stato. Parlo con lui».
    Mi parli di lui.
    «Ero considerato ottuso. Ero un sognatore. A scuola mi distraevo guardando il campo di calcio, il glicine fuori dalla finestra. Non mi interessava nulla di quello che succedeva in classe».
    Può esserci apprendimento senza desiderio?
    «No. Si impara quando c’è un trasporto, un interesse erotico per il sapere. Altrimenti è una minestra senza sale. È giusto respingerla».
    Viviamo in un mondo senza sale?
    «La mia tesi è che siamo nel tempo della morte del desiderio, anche se apparentemente sembriamo, come mai prima d’ora, liberi di volere e avere tutto quello che ci pare».
    E invece?
    «Non è desiderio quello che viviamo, ma la sua riduzione a “capriccio”, dominata da una compulsione a godere, che soffoca ogni possibilità di volere - davvero - qualcuno o qualcosa»
    Perché è così importante desiderare nel modo giusto?
    «Perché è la manifestazione più propria della singolarità. Non c’è un desiderio uguale all’altro: ognuno ha il proprio».
    Quindi i ragazzi che non hanno desideri sono, in realtà, privati di se stessi?
    «Sì. Vivono in un’illimitata libertà pulsionale, senza repressioni né vincoli. Ma non hanno lo slancio di chi vuole davvero: il motore che rende la vita vivibile. Crescono in un paradossale Nirvana, fatto da una continua moltiplicazione delle cose ottenute e fatte. Totalmente priva di esperienze profonde».
    Si può desiderare una cosa che si ha già?
    «Certo, pensiamo all’isteria di chi è insoddisfatto. Il desiderio di quello che si ha già è l’amore. Che si oppone alla logica per cui il nuovo è sempre meglio e quindi tutto esige un ricambio. Io credo che la bellezza di un legame stia nella ripetizione».
    Non si rischia la noia?
    «Al contrario: è la continua ricerca del nuovo a riprodurre sempre la stessa insoddisfazione. Nella fedeltà, c’è la possibilità di scoprire qualcosa nella stessa persona. L’amore non è un’esperienza rara e io sono un fan della monogamia».
    Si può essere fedeli anche agli oggetti?
    «Sì, ma il nostro tempo, che sostiene il mito del ricambio, non lascia loro il tempo di sedimentare un ricordo».
    Ma se vuoi quello che hai, dove va a finire il desiderio?
    «Implica sempre la visione di qualcosa che non c’è ancora, la visione di un altro mondo».
    Nel suo libro, lei sfida i lettori a stare un giorno nella stanza dell’analista. Per verificare che “c’è chi vuole un piede e chi una scarpa. Ed esistono mille tipi di scarpe e di piedi”. Come sono cambiati i pazienti negli ultimi anni?
    «Il mio mestiere ha una scansione burocratica: stessi orari, stesse posizioni, stessa poltrona, stesso lettino… Non cambia niente per anni. A parte i discorsi dei pazienti: le pene d’amore non sono più al centro. Ora il nodo è proprio la difficoltà di generare il desiderio, non più l’incapacità ad avere una corrispondenza amorosa. Oggi è più importante l’oggetto che la persona. È meglio mangiare che fare l’amore».
    La psicoanalisi è la soluzione?
    «È una possibilità di rimettere in moto il desiderio».
    Lei quanto “desidera” fare il suo lavoro?
    «Sono felice di ciò che faccio, anche se è difficile confrontarsi con l’angoscia, la disperazione o la follia. È un lavoro che, alla fine, richiede anche un tempo per la solitudine, come fosse ossigeno».
    Qual è il momento più bello?
    «Quando qualcuno soffocato dalle attese degli altri riprende in mano la propria storia e la propria vita... È meraviglioso».
    Torniamo al bambino ottuso che era, dove è finito?
    «Qui, davanti a lei. Lo psicoanalista deve essere un po’ così, aver bisogno che gli si ripetano le cose molte volte, non deve capire tutto subito».
    Lei dice che il desiderio, per manifestarsi, ha bisogno di limiti. Chi li stabilisce?
    «Se non ci fossero dei confini, un prato non sarebbe mai un campo di calcio. La legge non è avversaria del desiderio, è l’esperienza del limite: non puoi avere tutto, essere tutto, non si può essere Dio».
    Saperlo è un bel sollievo.
    «Sì, se lo prendi dal verso giusto. E se ne hai imparato il senso. I genitori, oggi, faticano a dire “no” ai ragazzi. Ma quella parola è essenziale per sostenere il “sì:” solo se rispetti il limite, potrai avere soddisfazione del desiderio. Se non pretendi di conoscere tutto, tu potrai sapere».
    Lei che cosa desidera?
    «Francamente ho realizzato quello che nemmeno osavo sognare da ragazzo. Sono continuamente attraversato da mancanze, ma quello che ho mi fa felice. Ho solo il desiderio che duri ancora. “Ancora” è la parola dell’amore».
     Il desiderio non è arbitrio, piuttosto è geometria inconsapevole, capace di strutturare il nostro stare al mondo secondo linee di fuga imprevedibili.

    Ma, per dirla con Carver, di che cosa parliamo quando parliamo di desiderio
    ?
    «Intanto di una forza inconscia che spinge alla relazione con l´Altro e che sempre implica un inciampo, uno sbandamento, una perdita di padronanza... Non sono "io" che decido il mio desiderio, è il desiderio che decide di me, mi rapisce e mi anima, non è necessariamente infelice e neppure è riducibile a un sentimento di mancanza. L´insoddisfazione è un tratto strutturale dell´isteria, non del desiderio che è piuttosto una potenza, uno slancio che mostra come la vita diventa umana solo attraverso l´Eros, il legame, il riconoscimento della dipendenza, della differenza, della vulnerabilità.
    Certamente va messa in conto anche una certa quota di solitudine nel movimento di separazione, di distacco, di rottura e di sovversione dell´ordine familiare. E neppure esiste una misura giusta per definire un desiderio "normale" in quanto unico e irripetibile, inventivo e incomparabile, devianza singolare che sfugge, resiste, ad ogni tentativo di omologazione autoritaria».




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