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Master Blaster al Festival del Cinema di Spello

Creato il 16 marzo 2015 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Primo sole pomeridiano di marzo, in trincea nel mio negozio, colonna sonora “Boadicea” di Enya.

A volte mi viene da pensare che il grande capo, quando mi affida un incarico, lo faccia per riflessi pavloviani.

Credo, per esempio, che nel suo immaginario, il fatto che io abbia passato in Umbria il mio anno di servizio civile mi renda automaticamente un profondo conoscitore del territorio, in grado di muovermi meglio di chiunque altro nella zona.

Ovviamente le cose non stanno proprio così, ma io evito di dirglielo, visto che l’idea di andare nella terra delle bellissime cittadine, del buon cibo e delle splendide donne è ogni volta una tentazione alla quale è difficile dire di no.

In particolare quello che mi colpisce ogni volta dell’Umbria è la sensibilità tutta particolare che il suo popolo e, caso più unico che raro in Italia, le varie amministrazioni mostrano verso l’arte cinematografica, vissuta non solo come amore e sensibilità verso il mezzo narrativo e le sue incalcolabili forme espressive, ma anche con un’attenzione tutta pratica alla tecnica.

Mai in nessun posto, come nei festival Umbri, ci si sofferma al particolare.

L’attitudine molto pratica di questa gente porta ad un pari apprezzamento sia del percorso tecnico dei cineasti, sia al valore artistico intrinseco nell’opera.

E in effetti le due cose, tecnica ed emozioni, sono complementari ed inscindibili. Ma purtroppo di rado ce ne accorgiamo.

Qui, invece, gli operosi e sensibili Umbri amano andare dietro le quinte per capire cosa c’è sotto le emozioni suscitate dalle pellicole.

Il festival di Spello, nello specifico, punta i riflettori su qualcosa a cui pochi, anche tra i più appassionati cinefili, dedicano attenzione: i titoli di coda!

Ricordo che il mio vecchio professore di storia e critica del cinema era uso ripeterci fino alla nausea che i titoli di coda fanno parte integrante del film e che sarebbe buona norma osservarli sempre fino alla fine.

In effetti ci raccontano il vissuto, il lavoro quotidiano di maestranze artigiane che spesso e volentieri sconfinano nell’arte pura e senza l’opera delle quali i film non sarebbe possibile realizzarli, o quantomeno risulterebbero molto diversi.

Difficile immaginare Sergio Leone, senza le musiche di Ennio Moricone, oppure George Romero senza i trucchi e le magie di Tom Savini.

Eppure quasi sempre, quando siamo al cinema, ci alziamo non appena cominciano a scorrere i nomi  di quelli che con il loro lavoro molto pratico mandano avanti la fabbrica dei sogni.

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Il Festival del Cinema Di Spello è invece il primo nel suo genere, nato per rendere omaggio a tutta questa forza creativa che spesso resta confinata nell’ombra.

A partire dal titolo “Le professioni del cinema”, l’appuntamento, giunto alla sua quarta edizione, offre la possibilità di conoscere tutti gli ingranaggi che permettono ad un film di essere grande.

Oltre alle consuete proiezioni infatti, l’evento si articola tra backstage, mostre, incontri e seminari, unendo a  quello che è un doveroso riconoscimento da parte del pubblico anche la possibilità di avvicinare le nuove generazioni alla conoscenza di possibili professioni future.

Un’occasione, per dirla con le parole della presidentessa Donatella Cocchini, “in cui i registi possano premiare e ringraziare tutte quelle persone che lavorano per loro”.

Un’occasione per dei professionisti di incontrarsi, confrontare tra loro esperienze e creare nuove sinergie e progettualità.

Un’occasione anche per noi, giornalisti e critici che spesso girando per festival dedichiamo tutte le nostre attenzioni a cineasti ed attori, per conoscere di più la materia della quale ci picchiamo di considerarci esperti, chiacchierando una volta tanto con questi artigiani/artisti.

Persone come lo storico del costume Luciano Lapadula e lo stilista Vito Antonio curatori della mostra “Siamo donne – i grandi stilisti vestono le donne del cinema”. Due persone fantastiche che, oltre ad accompagnarmi con spiegazioni più che esaurienti tra i saloni della mostra in cui erano esposti cimeli storici della loro collezione privata, tra cui un abito di scena appartenuto Marlene Dietrich, hanno trovato il tempo e la pazienza di farsi disturbare durante il pranzo dal sottoscritto per rispondere a tutte le curiosità circa la ricerca storica per realizzare dei costumi di scena, fino al racconto di qualche aneddoto come quello riguardante la linea di vestiti realizzati dall’attrice Gloria Swanson (anch’essi esposti) e caratterizzati da una firma nascosta dentro ogni abito recante la dicitura “Gloria Swanson forever young”.

Ovviamente a cena, trovando piacevole la reciproca compagnia, ci siamo riseduti allo stesso tavolo, ma questa volta Luciano è stato perentorio, esordendo con un inappellabile “Stasera non parlo di lavoro, non ne posso più”. Infatti mi rifaccio il giorno dopo a pranzo.

Sia perché il cibo è ottimo – e va detto che qui giornalisti ed ospiti sanno come viziarli – sia  perché ho la fortuna di dividere il desco con il maestro Federico Savina, uno tra i più grandi tecnici del suono viventi in Italia, al quale si sono affidati i nomi più importanti della storia del cinema Italiano, come   Dario Argento, Luchino Visconti, Sergio Leone… impossibile elencarli tutti, visto che al suo attivo ha oltre trecento titoli.

Da buon docente, quale egli è, mi dà una lectio magistralis sull’importanza e l’evoluzione del sonoro e la sua capacità di suscitare emozioni legate alle immagini al livello subliminale, soprattutto in rapporto alle nuove tecnologie. Savina è un uomo dei suoi giorni, che vive il tempo presente, forse anche più del sottoscritto, eppure non riesce a velare un tono di nostalgia, quando mi parla di orchestre di cinquanta e più elementi nei vecchi studi di Cinecittà, al bel tempo che fu.

Tutto questo tra il cappello di prete e la bistecca chianina.

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Il tempo tra il dolce ed il caffè lo impiega invece a spiegare ad un orecchio profano come il mio il concerto dei Jazz Cinematique della sera prima, in cui la band ha proposto in chiave rivisitata gli storici temi del grande cinema. Lasciandomi anche un tantino spiazzato, devo ammetterlo, in quanto non cultore del jazz e sicuramente non pronto a capirlo fino in fondo. Almeno, non prima delle spiegazioni del maestro Savina su come in quel genere musicale sia la mente dell’ascoltatore a dover completare determinati passaggi, lasciati volutamente incompiuti.

Che dire?

Forte di queste nuove conoscenze, spero di aver quanto prima l’occasione di poter rivedere quei musicisti, innegabilmente bravi e di poterli finalmente apprezzare come meritano.

Tra una cosa e l’altra trovo il tempo di concedere un’intervista ai ragazzi negli studi di Dotradio, l’emittente web locale.

Inutile dire che il trovarmi io, una volta tanto, nei panni dell’intervistato mi ha fatto un effetto strano e anche divertente.

Ovviamente, mentre parlavo, mi preparavo mentalmente a negare la responsabilità su tutte le boiate che eventualmente avrei detto, adducendo come scusa il fatto che ero ubriaco come ai tempi del liceo.

Grande delusione invece il giorno dopo per l’assenza di Giuliano Montaldo che era atteso per la presentazione del suo libro “Un Marziano Genovese a Roma”, l’unica biografia del regista che mi ha commosso in gioventù con film come “Acthung banditi”, toccando quelle che sono le corde più sacre e sincere delle mie convinzioni.

Purtroppo una poderosa influenza, con la quale non è bene scherzare vista la sua età, lo ha costretto a letto, ma non ha rinunciato a far pervenire un messaggio al pubblico del festival, in cui per altro ha ricordato la partigiana “Agnese”, fatto che mi ha fatto venire gli occhi lucidi dalla commozione.

Certo, averlo visto dal vivo sarebbe stata tutta un’altra cosa, ma devo dire che Alberto Crespi (giornalista e storico del cinema) se l’è cavata benissimo a presentare il libro da solo, condendo l’incontro con gli immancabili aneddoti.

Molto graditi quelli su Volontè che imparava nottetempo il dialetto nolano per interpretare Giordano Bruno.

Finalmente arriviamo al gran galà della premiazione, nella cornice del teatro comunale, che inizia dopo una breve introduzione tratta dal Cyrano de Bergerac.

Un vero strike per il film “ Senza nessuna pietà” per la regia di Michele Alhaique che si aggiudica in un colpo solo il premio per la miglior fotografia (Ivan Casalgrandi), per la miglior scenografia (Sonia Peng), per il montaggio ( Tommaso Gallone) e, scusate se è poco, anche il premio come miglior film scelto dal pubblico. Segue a ruota “Il giovane favoloso” di Mario Martone per i migliori costumi (Ursula Patzak), i migliori effetti speciali (Rodolfo Migliari) e il miglior trucco (Maurizio Silvi).

Il miglior documentario invece risulta “Cesare Battisti: l’ultima fotografia” di Clemente Volpini e ad aggiudicarsi il titolo di miglior backstage infine è “I nostri ragazzi”, regia di Francesco Chiatante.

Conclude la carrellata una menzione speciale per  “Il caso Kerenes” regia di Calin Peter Netzer.

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A margine della premiazione finalmente riesco a placcare Donatella Cocchini per fare il punto della situazione su questo evento di cui, ricordiamolo, Taxi Drivers è media partner.

Curiosamente l’idea non nasce a Spello ma a in un bar del centro di Roma, dove Donatella in compagnia del suo amico regista Fabrizio Cattani, che poi diventerà direttore artistico del festival, hanno la folgorazione sulla via di Damasco.

Creare un appuntamento che parli della loro grande passione, il cinema, attraverso i mestieri e con il progetto di uscire dalle sale e portare la propria proposta nel territorio con un occhio particolare alle scuole.

Lo spessore della manifestazione è dato anche dal fatto che sia gestita dall’associazione culturale Aurora, attiva tutto l’anno e non solo a ridosso del festival, e cerca di andare oltre il puro intrattenimento cercando di riempirlo di tematiche sociali come la violenza contro le donne.

Da quattro anni a questa parte lo sforzo maggiore è stato quello di allargare il più possibile il raggio di azione coinvolgendo nelle attività il più ampio numero possibile di comuni dell’hinterland. Non si considera in concorrenza con nessuno ed è la prima ad auspicare ogni possibile collaborazione. Ma le ambizioni sono maggiori e con il Progetto Huston l’obiettivo è quello di dare all’appuntamento un respiro internazionale.

E qui Donatella non nasconde il suo sogno nel cassetto, ovvero che un attore “grande” si presti come testimonial del festival e “Venga a rendere il dovuto omaggio ai mestieranti”.

Ovviamente, costi permettendo, considerando che il 20% delle spese sostenute viene supportato dagli associati.

I numeri delle presenze, quest’anno circa 16.000, sono dalla sua e noi di Taxi Drivers ovviamente non solo gli porgiamo i nostri migliori auguri, ma abbiamo intenzione di continuare a supportare questa realtà garantendogli il nostro modesto appoggio.

Donatella è una persona energica e adorabile. Come tutti gli Umbri, entusiasta di quello che fa, è al tempo stesso schietta e diretta. E infatti dopo poco, presa dagli impegni della serata,  mi dice che deve lasciarmi e che l’intervista è finita.

Rimango un po’ sovrappensiero a riordinare le idee, finché l’energica pacca sulle spalle da parte di un collega mi riporta brutalmente alla realtà al grido “E’ ora di cena….. andiamo a incrociare le forchette!”

Colonna sonora : “L’era del cinghiale bianco” – Franco Battiato.

Master Blaster


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