Litorale di Nettuno, un’afosissima notte di Agosto.
Colonna sonora: Tintarella di luna di Mina.
Di norma, è bene dirlo subito, per passare una piacevole serata al chiaro di luna, sui lettini di uno stabilimento balneare, preferisco una compagnia con meno barba e curve diverse da quelle che caratterizzano Luigi Pastore.
Ma ormai sta diventando una tradizione fare con lui il punto della situazione all’inizio di ogni di ogni Italian Horror Fest, sulla medesima spiaggia dello stabilimento che ogni anno ospita la manifestazione sponsorizzata dal comune.
Quindi sorvolando sulle mie preferenze in altre situazioni, eccomi qui, col direttore artistico del festival a vedere quanta carne c’è da mettere al fuoco.
Ovviamente in pieno periodo di austerity anche questo appuntamento che pure è nato dalla volontà e dalla passione di sincero cinefilo del sindaco Chiavetta, ha subito qualche sforbiciata al budget.
Però bisogna ammettere che non tutto il male viene per nuocere. Infatti l’ottimizzazione delle risorse costringe giocoforza a tagliare i rami secchi e anche questo caso non fa eccezione.
Rispetto all’anno scorso è stata eliminata l’arena due, cosa per la quale non mi straccerò le vesti.
In effetti, a parte il fatto che essendo una struttura rimediata in fretta e furia, aveva una visibilità pari a quella di una notte in Val Padana nella stagione delle nebbie e la sua programmazione – quando riuscivo a intravederla per caso sullo schermo – mi causava seri problemi di digestione.
Molto meglio puntare ad una scelta qualitativamente alta anche per i cortometraggi, siano essi in concorso o meno.
Altra cosa di cui non sentirò la mancanza sono le orrorine.
Le benemerite vallette saranno state anche esteticamente appaganti, ma io che sono un misantropo a causa del mio calo estivo di testosterone, sicuramente ne apprezzavo le forme meno degli altri comuni mortali.
E poi erano decisamente fuori contesto. Sembravano più adatte ad una serata di karaoke a Capocotta che non ad una rassegna di cinema horror.
Molto meglio i figuranti zombi gentilmente offerti dalla locale compagnia teatrale “Le margherite” che hanno copiosamente infestato la kermesse molestando e urtando i presenti con la loro goffa andatura da non morti.
Anzi ce n’ era una dotata di trinciapollo che credo mi si fosse particolarmente affezionata a giudicare dai sepolcrali mugugni che emetteva e dal rivolo di bava verde che immancabilmente le colava dalla bocca ogni qual volta le passavo vicino.
Anche il trofeo, l’ambito “Nettuno D’Argento” ha subito un restyling. Non più realizzato da Sergio Stivaletti, grande assente di quest’anno, ma da un artigiano locale.
In fondo ci sta pure, specie in un momento come questo, che la città goda di qualche beneficio da una manifestazione che se non si integrasse nel sociale sarebbe vista dai più rustici come uno sperpero di denaro pubblico.
Tra l’altro la campagna di tematiche sociali promossa dall’amministrazione per il festival è stata incentrata sul degrado ambientale, tema molto sentito in città, forse perché la raccolta differenziata porta a porta stenta a decollare, direi se fossi in vena di fare il maligno.
Ma visto che è stato lo stesso sindaco, nella conferenza stampa di apertura del festival a denunciare (più di) qualche difficoltà nel servizio, posso pure fare a meno di intingere la penna nel vetriolo e rendere onore al merito a chi riconosce degli errori.
In fondo come diceva Gramsci, la verità è rivoluzionaria. E poi diciamola tutta, se ci sono stati delle mancanze nella gestione da parte dell’amministrazione, è altrettanto vero che c’è stata anche poca sensibilità da parte di alcuni cittadini.
Finito dunque il mio momento semiserio di riflessioni sociali ed elencati i tagli e le modifiche fatte alla logistica del festival, è anche giusto rilevare l’elevato tenore degli ospiti e delle attività correlate.
Dalla retrospettiva, quest’anno dedicata a Cozzi, su cui voglio spendere qualche altra riga in questo articolo, agli incontri letterari, curati dall’ottimo amico Tentori.
E pare che oltre al patrocinio pubblico, Pastore stia cercando anche degli sponsor privati, per regalarci l’anno prossimo qualcosa di ancora più ghiotto.
In realtà il programma di quest’anno era talmente fitto di proposte che era anche difficile stargli dietro.
Ed anche per questo che stavolta non ero solo.
Già! A sbarcare con me sulle spiagge Nettunensi tinte di rosso per l’occasione, ci sono due delle migliori penne della redazione di Taxidrivers.
C’era Fangoria con D’Onofrio e il suo grande capo Chris Alexander in persona, venuto tra le altre cose a presentare il suo nuovo film ”Queen of blood”.
C’era anche RAI Movie, ai cui dirigenti qualcuno finalmente deve aver rivelato che il cinema italiano non è solo Pieraccioni e Vanzina, ma che anzi esiste un tipo di cinema amato e conosciuto in tutto il mondo, meno che in Italia.
C’era anche un Paolo Ruffini a presentare un Dario Argento onestamente fuori forma. E onestamente pur di non vedere quest’ultimo spettacolo mi sarei volentieri seduto sulla poltrona del dentista.
Decisamente noi non potevamo essere da meno.
Con me c’erano: Stefano Coccia, collega e amico fin dai lontani tempi dell’università e Giovanni Berardi, un autentico mastino da guerra pronto a placcare ogni personaggio interessante.
Lui, a differenza di me che millanto un’ostentata sicurezza per vincere i miei irrisolti complessi di inferiorità, si muove con vera familiarità tra i grandi maestri del cinema con cui è realmente di casa.
Insieme ci siamo coordinati per offrire all’evento una copertura totale.
Avevo anche pensato di presentare a Pastore il conto per il servizio, giusto per vedere che faccia avrebbe fatto mentre gli veniva un infarto.
Ma poi ho desistito, fondamentalmente per due motivi.
Il primo è che senza di lui poi chi lo manda avanti il festival?
Il secondo è che visto che proprio in queste sere ci ha presentato un’anteprima accattivante del suo nuovo lavoro in veste di regista, non voglio rischiare che il caro Luigi ci lasci prima di aver riportato sugli schermi la sua sua versione di Violent Shit.
Si avete capito bene!
Karl the butcher sta tornando!
Enorme, psicopatico e con una mannaia più grossa degli attributi di Rocco Siffredi!
Prodotto dalla LPLM-production e dalla Reel Gore Productions, già dal trailer gronda sangue a secchiate, teste spappolate come cocomeri maturi e gentili signore impazienti di affidarsi alle cure nel nostro coccoloso maniaco teutonico.
Questa è una delle anteprime certamente più ghiotte presentate alla kermesse.
Ma non me ne voglia Luigi se dico che gran parte della mia attenzione è andata al promo dell’ultima fatica di Luigi Cozzi che dopo 25 anni (e dico 25!!!), torna alla regia con “ Blood on Melies Moon”.
Un lavoro metafilmico in cui Cozzi interpreta Cozzi, accompagnato da una schiera di amici di tutto rispetto come Argento, Tentori, etc.
Un’operazione che non ha potuto che suscitarmi subito simpatia per l’indubbio richiamo a “Un gatto nel cervello” dell’adorato Fulci.
Come nel suo nobile precedente, anche in questo caso Cozzi usa il testo filmico per fare un bilancio della sua carriera e raccontarci le ansie e le pulsioni di una vita da artigiano della macchina da presa.
Il tutto tra schizzi di sangue e secchiate di ironia.
Anzi l’ironia, o meglio l’autoironia sembra essere il tratto distintivo del lavoro di Cozzi che si presenta fregiandosi del titolo di “peggior regista del cinema Italiano” , sottotitolo “the Italian Ed Wood”.
Insomma è un film che dice fin dal trailer che le premesse ci sono tutte per un ritorno pirotecnico, dopo 25 anni di assenza dalle scene.
Decisamente non mi aspettavo nulla del genere e sono rimasto piacevolmente colpito nel vedere questo grande vecchio della settima arte giocare con se stesso, senza imbarazzo nel prendersi in giro.
Un cosa che mi ha fatto rivalutare di mille punti Cozzi sul piano umano.
Sia chiaro che, come ho scritto in precedenti articoli, ho sempre ammirato il suo lavoro come regista, ma umanamente l’ho sempre considerato, al pari di molti, un po’ calcolatore e unicamente interessato al botteghino.
Inutile dire che è stato un piacere cambiare idea….
Anzi di occasioni per rivalutare Cozzi da ogni punto di vista ne ho avute tante in questo festival in cui lui è stata la star indiscussa.
A partire dalla sua sconosciutissima opera prima “Il Tunnel sotto il mondo” un film del 1969 liberamente tratto da un racconto di Frederik Pohl.
Una pellicola assolutamente sperimentale la cui sceneggiatura è un insieme di suggestioni e di riflessioni sociali sull’ossessivo e pervadente controllo di massa esercitato dalla pubblicità.
Una serie di sequenze legate tra loro da un montaggio acidissimo e una fotografia psichedelica ottenuta con una lavorazione totalmente artigianale, in cui i dialoghi sono apparentemente sconnessi tra loro, come in una carrellata di spot, ma raggiungono lo scopo finale di penetrare la psiche dello spettatore con il loro messaggio subliminale e ripetitivo.
Una prova d’autore in cui Cozzi dimostra di saper andare oltre l’intrattenimento puro ed arrivare a stimolare anche pensieri più profondi.
Un film di difficile lettura, sconsigliato a chi cerca due ore di pura evasione, ma capace di regalare incisive sensazioni allo spettatore che superato lo smarrimento iniziale, decide di seguire questo lavoro con l’attenzione che merita un lungometraggio impegnato.
Agli organizzatori il merito di averci fatto scoprire una perla nascosta, aprendo il festival con questa coraggiosa scelta.
In fondo il tratto caratteristico dell’Italian Horror Fest sta proprio nella retrospettiva.
Se il Fantafestival è un appuntamento per gli esperti del settore che si concentra sulle novità e sulla ricerca, il festival di Nettuno può tranquillamente essere definito come didattico.
Svolge un indubbio lavoro di recupero, con il merito di far avvicinare i profani ad una gloriosa pagina delle nostre tradizioni artistiche.
Anzi secondo me, sbaglia e di molto anche, chi vorrebbe vedere le due kermesse in competizione l’una contro l’altra. La verità è che queste realtà sono complementari e potrebbero ottenere grandi risultati nel panorama culturale nazionale ed estero, se un domani decidessero di lavorare in sinergia.
Ovvio che questa è la mia personalissima opinione, ma visto che come diceva il Marchese del Grillo “Io so io…. e voi nun siete un cazzo” diciamo che è quella che conta e chiudiamola qui.
Nonostante, come detto in precedenza, il tratto caratterizzante di questo festival sia la retrospettiva non mancano proposte interessanti tra le novità, a partire dai film in concorso.
Cominciamo da : “La controra” della regista Rossella De venuto.
In primis perchè il lavoro di una regista donna nell’ambito del genere horror è sempre una mosca bianca e merita le dovute attenzioni.
Poi perché, proprio come ha specificato la giuria nelle motivazioni che lo hanno incoronato come vincitore del festival, il film racconta in modo raffinato una storia di fantasmi, valorizzando al contempo il contesto regionale.
Nella fattispecie i dintorni di Giovinazzo e Altamura, due località a nord di Bari.
E direi che sul secondo punto va lodata la scelta della giuria che ha scelto comunque di portare avanti ad altre motivazioni la tipicità del prodotto italiano e non la copia edulcorata delle molteplici produzioni americane.
Peccato aggiungo io, che il film sia stato girato in Inglese!
Si, lo so, in questo caso sto cercando il pelo nell’uovo e in fondo per un lavoro così ben confezionato, dal soggetto fino alla fotografia, quello della lingua è un peccato veniale su cui potrei anche sorvolare una volta tanto.
Ma a me questa faccenda dei film Italiani, presentati ad un pubblico Italiano in Inglese proprio non va giù, quindi fatevene una una ragione.
Poi lo ammetto, in realtà le mie simpatie andavano al secondo classificato “Oltre il guado” di Bianchini.
Che dirvi che già non vi ho detto su questo capolavoro?
Solo sensazioni.
Rivederlo anche in pieno agosto, all’aperto e quindi senza la climatizzazione di una sala, mi ha fatto salire una serie di brividi lungo la schiena.
Tutta la forza di una natura ostile non risulta svilita ad una seconda visione, anzi ne esce rafforzata.
In più avendo avuto un po’ di tempo per fare due chiacchiere in tranquillità con l’aiuto regista e l’attore protagonista, posso dire che oltre all’ammirazione per un prodotto dall’indubbio valore artistico, si va ad aggiungere la mia stima professionale per due artigiani umili e preparatissimi.
Rubando poi stralci di conversazione con alcuni membri della giuria potrei dirvi che nell’accesa discussione su quale tra i due film andasse premiato, quello che probabilmente ha decretato il secondo posto per “Oltre il guado” è stata una critica all’eccessiva lentezza del film.
Critica che ho trovato anche in qualche giudizio di alcune mie conoscenze che stimo molto competenti in fatto di cinema.
Ora non voglio certo permettermi di insegnare il lavoro a nessuno dei mostri sacri che componevano la giuria, né andare a sindacare sui gusti personali di tutti gli altri ma permettetemi di spezzare una lancia in favore di questa presunta lentezza.
Un film basato sul celato e sui giochi di attesa è normale che a tratti sia anche lento, senza per questo perdere di valore.
Questo perché la lentezza fa parte del contesto narrativo, è speculare alla climax e serve anche a creare un senso di attesa.
Immaginatevi se in un film indubbiamente lento come “Dersu Uzala”, Kurosawa avesse inserito ad un certo punto, uno Steven Seagal qualsiasi armato di M60 che sbucasse fuori dai boschi a sparar sui Russi, solo per vivacizzare la trama.
E su! Siate Buoni!
Tra i film che invece non avuto nessun onor del podio invece, ci tengo a segnalare “Zooschool” di Andrea Tomaselli.
Questo glielo devo, perché appena iniziata la visione ho cominciato a sudare freddo, pensando di trovarmi di fronte ad un horror college in salsa spaghetti.
Ricordo che esclamai tra me e me “Oddio no! Ho dimenticato la novalgina a casa!” e in preda a convulsioni antiamericane ero pronto a massacrare il povero Tomaselli, reo di aver importato il peggior prodotto del cinema a stelle e strisce.
Invece fin dalle prime battute ho capito quanto mi sbagliassi.
Il film ha una forza introspettiva notevole che affonda le sue radici nella ricerca psicopatologica.
Oltretutto ci mostra una violenza assoluta ma non gratuita che si esprime in una crudeltà senza veli o filtri buonisti.
Offre soluzioni interpretative per immagini assolutamente innovative, ad esempio presentandoci il liceo dove si svolge la vicenda come una grigia fortezza che cela chissà quali oscuri segreti.
Peccato per la qualità della fotografia e la scelta di alcuni attori che fanno intuire la povertà dei mezzi a disposizione.
Ma forse le vere novità della stagione sono andato a pescarle nel limbo dei cortometraggi.
Dico limbo, non perché abbia dei pregiudizi verso la forma del cortometraggio che anzi può regalare degli autentici capolavori, bensì perché sono ben conscio che in Italia, viste le carenze strutturali della distribuzione, per non parlare della produzione e della predisposizione del pubblico, il corto è da considerarsi poco più che un promo, un divertimento o un esercizio di stile.
Invece partendo dal vincitore della categoria, il francese “Je ne suis pas Samuel Krohm” di Sebastien Chantal, vi introduco ad una splendida interpretazione degli incubi Lovecraftiani trasportati nella dolce campagna Francese.
Il corto osa molto e con una notevole dose di rischio.
Non è mai facile interpretare le visioni del solitario di Providence, né per contenuti, né per atmosfere e men che mai per immagini.
Molti ci hanno provato, ma pochi sono quelli che ci sono riusciti senza cadere nel ridicolo.
Pochissimi poi quelli che sono riusciti a rendere a pieno la cappa claustrofobica del complotto, l’attesa della visione e dell’orrore che gli Antichi, molto presenti e poco mostrati, portano con loro.
Qui invece l’intreccio narrativo funziona e funziona anche l’adattamento della vicenda ai giorni nostri con tutte le tematiche che ne conseguono.
Dagli OGM ai problema dell’ecologia in genere.
Il girato è di qualità superiore, come gli effetti speciali. Non tantissimi a dire il vero, ma eccellenti nella loro realizzazione e ben dosati.
Insomma il lavoro non è stato realizzato in povertà. Chantal è un professionista competente, con buone idee e, quel che conta, mezzi per realizzarle.
Ma non fraintendetemi. L’avere un cospicuo budget a disposizione per realizzare un gioiellino del genere non è affatto una colpa.
Anzi, se è lecito spendere soldi, direi che questo è uno dei modi migliori.
Di soldi invece Lorenzo Lepori ne aveva pochini e ne ha spesi ancor meno per realizzare il suo “Alien lover”.
Ma come millenni di espedienti ci hanno insegnato, ciò che il buon Lorenzo difetta in mezzi, lo sopperisce in italico estro e ci regala una fantastica bischerata dai toni accesissimi.
Man mano che i fotogrammi si dipanavano sullo schermo non riuscivo a credere ai miei occhi.
Secchiate di sangue, frattaglie da macelleria e mascheroni carnascialeschi ci riportano ad una dimensione che ricorda tantissimo il primissimo e ancor vergine Peter Jackson di Bad taste.
La trama è una vera toscanata che va a smucinare l’ulcerosa piaga delle corna, vissute in un paesino di provincia, aggravate dal bonus alieno. Come se ai vari “becchi” di tutta Italia non bastasse più esser cornificati da un semplice compaesano.
Le scelte truci nell’uso smodato di effettacci si sposano a pieno con la cattiveria della tematica trattata e la risultanza è un connubio gradevolissimo condito con un quantomai azzeccatissimo uso del dialetto. Senza remore e senza vergogna.
Bravo Lepori! Così si fa!
Se volessimo citate “L’hagakure” di Tsunetomo potremmo parlare di un’opera della massima leggerezza, trattata con il massimo della serietà.
Dubito che riusciremo a vedere questo lavoro attraverso i normali canali di distribuzione, ciononostante consiglio a tutti di industriarsi per trovare questa perla boccaccesca.
E una volta trovata, non mancate di reperirne una copia per il sottoscritto.
In chiusura mi premere spendere due parole sulla sezione degli incontri letterari.
Se ne occuperà in maniera più monografica il collega Stefano Coccia, quindi non mi dilungherò più di tanto.
Però ci terrei a rivolgere un invito alla direzione del festival affinché si spendano di più nel promuovere questo aspetto del festival un po’ trascurato.
La sezione è condotta da una vera autorità come Tentori, in grado di guidarci attraverso i meandri della parola scritta. Pochi come lui sono in grado di dare suggerimenti e offrirci proposte altrettanto valide.
E gli incontri con gli autori sono quasi sempre delle vere occasioni di crescita.
Personalmente ho assistito con piacere ad una lectio brevis sul Necronomicon di Abdul Al Alhazred, improvvisata dal professor Volterri ad uso e consumo di un pubblico che avrebbe potuto e dovuto essere più numeroso.
Così come vedo sempre con piacere il poliedrico Paolo di Orazio che batte tutto il paese con la sua inseparabile valigetta piena di interiora per promuovere il ritorno della sua validissima creatura.
Con molto dispiacere ho notato che alcune volte questi incontri si riducevano ai soli addetti ai lavori.
Insomma è vero che adoro fare sfoggio della mia sopravvalutata istruzione nelle sedi competenti, ma vedere un appuntamento del genere così poco valorizzato, come se fosse una cenerentola non mi sembra giusto.
É un po’ come possedere una Ferrari e tenerla sempre in garage.
Non me ne voglia Pastore se ho deciso di chiudere il pezzo dandogli quest’ultimo consiglio.
Se l’ho fatto è perché, con la sua aria da bambinone entusiasta di quello che fa, è riuscito a contagiarmi e a trasmettermi la passione, facendomi affezionare alla sua creatura, che ora voglio veder crescere come un piccolo blob.
Come a dire “A Luigi! Hai voluto la bicicletta?………Mò pedala”
Colonna sonora: Sosta – Punkreas.
Master Blaster