Gaetano Paolocci
Il mio negozio, un assolato pomeriggio di primavera, colonna sonora: “la battaglia sacra” dei Litfiba.
Che bello!
Fornito di un nuovo computer portatile, posso finalmente approfittare di quel periodo morto nell’attività, che va dalle 14 alle 16, per mettermi in paro con il mio lavoro da redattore e consegnare il pezzo in anticipo – credo per la prima volta da quando ho iniziato la mia collaborazione con Taxidrivers, e neanche di poco…a meno che problemi tecnici inattesi, coadiuvati dalla mia disorganizzazione organica, non ci mettano lo zampino.
Mi sento orgoglioso al pensiero che il pezzo potrebbe essere pronto addirittura una decina di giorni prima della scadenza della deadline. Per citare il Manzoni, già immagino la faccia, “percossa e attonita”, del grande capo quando si troverà in posta l’articolo bello e pronto, senza il bisogno di rovesciarmi addosso la consueta sequela di improperi teutonici e bestemmie in bulgaro antico per incitarmi alla puntualità. Di contro, spero solo che lo shock non lo uccida, lasciando orfani della sua guida me e tutta la redazione!
Sta diventando tradizione, anche se non consolidata che, almeno una volta l’anno, mi dedichi ad un articolo di solo cinema, vezzo peraltro comprensibile, visto che scrivo su una rivista di specializzata. Se poi anche quest’estate i doveri di redazione mi manderanno per festival poco male, perché quello di cui tratterò questo mese mi porta nell’universo amato e sognato fin da bambino: il meraviglioso mondo degli effetti speciali e delle creature fantastiche.
L’idea mi era venuta per caso; passando davanti al Palaeur vedo un grande cartellone mobile che tra un Frankenstein e un Alien pubblicizzava l’evento Creatures Studios, mostra di creazioni e scenografie del cinema.
Troppo puerile? Scontato? Di nicchia? Poco professionale? Forse, ma come amo sempre ricordare in queste pagine non essendo un professionista, né pagato come tale, posso permettermi licenze e divagazioni che un imbrattacarte che ha come primaria preoccupazione quella di portare a casa pane e companatico con i suoi articoli magari non potrebbe concedersi.
In fondo quello che rende la formula di Taxidrivers vincente, rispetto a molti altri magazine sulla settima arte (e ormai anche sulle altre sei), è il mix di passione ed emozioni che i membri della redazione mettono nel perseguire i loro interessi. E nulla mi emoziona di più che ricordare i grugniti, il trucco e l’andamento dinoccolato di sua maestà Boris Karloff nei film di Frankenstein che tanto mi spaventavano da piccolo. Comunico quindi le mie decisioni al quartier generale e con un rapido giro di contatti e i potenti mezzi del nostro ufficio stampa mi procurano l’accredito stampa e, cosa più importante, un appuntamento con il direttore artistico dell’evento.
Pochi sanno che, svolgendo la nobile arte del giornalismo, spesso i veri problemi non stanno nel trovare le notizie, ma nel raggiungerle, e per raggiungerle intendo proprio nel senso fisico della parola. Se aggiungiamo il fatto che il Palacavicchi, sede dell’evento, non è proprio al centro e che il sottoscritto ha il senso dell’orientamento di una martora, l’impresa ha del titanico.
Se perfino una persona normale, a meno che non conosca bene il dedalo di vie e viuzze che si diramano dall’Appia, dovrebbe avere l’accortezza di procurarsi una mappa della zona per non disorientarsi, io, capace di smarrirmi anche a Villa Pamphili quando militavo nei boy scout, mi sono perso una quantità ragguardevole di volte, riuscendo a finire in un paio di occasioni anche tra i pascoli della dolce campagna romana che si stende dopo il Raccordo Anulare. Tuttavia alla fine riesco a giungere all’appuntamento con appena una decina di minuti di ritardo.
Ad attendermi c’è Gaetano Paolocci, curatore della mostra, il quale, in coppia con il fratello Francesco, è una delle poche persone oggi in Italia che può vantare un curriculum di alto profilo internazionale nel campo degli effetti speciali e dello special make up.
Come diceva sempre il mio vecchio professore di storia e critica del cinema, i titoli di coda sono parte integrante del film e a non guardarli si perde molto, praticamente tutta l’architettura che regge la complicata finzione del testo filmico, fatta non solo dalle parole scritte sui copioni e dagli attori che le recitano, ma anche da un mondo sconosciuto di maestranze, spesso abilissime, e veri e propri artisti che spesso ci è dato di conoscere proprio solo grazie ai credits. Questo ovviamente vale se l’artista in questione non si chiama Carlo Rambaldi. Chi non conosce il papà di ET, colui che ha dato vita ai “vermoni” di Dune?
Non è quindi senza un brivido che vengo a sapere che il dinamici Paolocci hanno lavorato gomito a gomito con il grande maestro, per il quale lavorarono anche come docenti nella sua Accademia Europea di Alta Formazione degli Effetti Speciali. In più hanno nel pedigree un elenco di collaborazioni con nomi da far rabbrividire, tra cui, solo per citarne alcuni: Dino De Laurentis, San Paolo Audiovisivi, Cannon Productions, Filmauro, Warner Bros e via dicendo.
Conscio di non poter chiedere una guida migliore per l’intervista, questa si trasforma in una chiacchierata informale, mentre intraprendiamo un percorso delle meraviglie – tra riproduzioni perfette e celebri cimeli originali – che ha il suo miliarum aureum nella lavagnetta del primo ciack di “Roma Città Aperta”, a fianco ad una cinepresa del periodo del neorealismo, posta in bella vista subito dopo l’ingresso.
Il percorso si snoda all’interno di quello che una volta era un grande capannone, diviso ora in padiglioni tematici.
Passiamo accanto ad un diorama di studio sul decoupage di Giger in poliestere e al braciere originale realizzato per il film “Il Gladiatore” ed entriamo nel padiglione “egizio” annunciato dai due leoni in poliestere usati per il film “Antonio e Cleopatra”.
All’inizio siamo molto formali, poi si passa inavvertitamente a darsi del tu. A dire il vero è proprio Gaetano, gentiluomo del cinema della vecchia scuola, che me lo fa notare – lasciandomi un poco imbarazzato – però io proprio non me la sentivo di essere burocraticamente ligio al protocollo con una persona che mi parla con tanta passione del suo lavoro.
Inciso: si tratta di un lavoro, chiariamolo una volta per tutte, che è la spina dorsale del genere cinematografico che prediligo dall’inizio dell’età senziente.
Poi dopo aver saputo che ha prestato la sua opera in uno dei miei film preferiti “The silver bullet” di Daniel Attias, uscito in Italia col titolo “Unico indizio la luna piena”, continuare a dargli del lei mi sarebbe sembrato un atto contro natura.
Quel film me la fece fare sotto dalla paura! Sarò anche un villano, ma spiegatemi come si fa ad essere ossequiosi con qualcuno che ti ha terrorizzato da bambino! Per la cronaca, sua è la tuta polimorfica indossata dall’attore durante la trasformazione in lupo mannaro.
I fratelli Paolocci si fanno onore all’estero, ma, prima che l’industrializzazione e il trust lo trasformassero in una catena di montaggio di film stagionali fatti in serie non hanno mancato di dare lustro anche agli ultimi fuochi di quello che fu il grande cinema italiano, lavorando con un grande veterano come Pupi Avati nella bellissima fola esoterica “L’arcano incantatore”.
Parlando arriviamo nel padiglione dei dinosauri, dove la mia fotografa, accanita fan di Jurassic Park letteralmente impazzisce; la guardo preoccupato, sperando che lasci nella card della macchina un po’ di spazio per le altre foto. Un ottimo spunto di discussione da questa area viene dall’esposizione di alcuni Animatroni realizzati per diversi film. Naturalmente, dall’alto della mia prosopopea, parto dal presupposto che chiunque legga Taxidrivers, sappia cos’è un animatrone, anzi, che ne possieda almeno un paio particolarmente ingombranti in vasca da bagno o nel tinello buono. Non mi dilungherò in particolareggiate spiegazioni tecniche, invitando, come al solito, nel modo più sgarbato possibile, i più ignoranti tra voi a consultarsi il “Teo Mora”, o, in extrema ratio, almeno la relativa voce su wikipedia. Sappiate solo che per far muovere in maniera soddisfacente una di queste creature di modello mediamente complesso e di piccole dimensioni serve una squadra di più di dieci persone.
Conveniamo che questa in particolare è un’arte che rischia letteralmente l’estinzione a causa di un uso indiscriminato, inconsapevole e in buona sostanza sbagliato del digitale.
Purtroppo moltissimi tra le nuove leve pensano che un’abbondante innaffiata di effetti digitali possa supplire ad una totale mancanza di mezzi o, peggio ancora, di talento, e che il computer sia la panacea per ottenere sbalorditivi capolavori con poca fatica e a costo zero, ignorando probabilmente che i grandi autori del cinema fantastico usano il digitale come complemento al trucco, agli animatroni e, ovviamente, ad un pizzico di bravura. Gaetano conosce bene ciò di cui parla, visto che nel suo curriculum ha all’attivo anche lavori per produzioni decisamente spettacolari, avendo bazzicato a più riprese anche il genere fantasy in produzioni eccelse come il bellissimo e commovente “Lady hawk” di Richard Donner e per chi, come il sottoscritto, ama anche le pellicole decisamente più “underground”, anche il divertente “The Barbarian brothers” con i due esilaranti gemelli culturisti, tardi epigoni di “Conan il barbaro”.
Chi fosse poi convinto che per realizzare buoni effetti e scenografie spettacolari serva solo una buona dose di immaginazione potrebbe avere una forte delusione nello scoprire che, ad esempio, per produrre molti lavori per la De Laurentis i fratelli Paolocci hanno dovuto passare molte giornate nei polverosi Musei della capitale, studiando reperti e cocci, traendo da lì dei modelli storicamente esatti e delle riproduzioni credibili.
La documentazione è importantissima, specie se poi si deve affrontare una produzione divulgativa, come quella realizzata dall’Istituto Geografico De Agostini per il programma “Alla ricerca dell’uomo delle nevi”, in cui, per la creazione dello Yeti, i due artigiani, oltre che avvalersi dell’ausilio dei testimoni oculari, sono stati affiancati da Bernard Heuelmans, scienziato ed eminente criptozoologo … definizione splendida, che fino a pochi giorni fa non sapevo nemmeno esistesse.
La passeggiata nel mondo delle meraviglie volge al termine, stiamo per entrare infatti nel padiglione horror.
Qui sono io ad andare in visibilio tra diorami cimiteriali e credibilissimi zombies che sbucano dal terreno, in una scenografia che mi riporta nel film “La villa accanto al cimitero” dell’immortale maestro Fulci.
Quando pongo a Gaetano la domanda di rito sui progetti presenti e futuri, mi spiega che al momento lui non lavora quasi più sul campo.
Per il cinema ricopre il ruolo di special effects supervisor, ovvero l’eminenza grigia che sovraintende alla progettazione e alla realizzazione di tutti gli effetti speciali da parte dei vari team di effettisti, e talvolta dirige in prima persona le sequenze in cui l’uso di effetti speciali risulta particolarmente pesante o complicato.
Nella vita da “civile”, invece, mette il suo talento al servizio di uno scopo, se possibile, anche più nobile dell’arte, occupandosi di protesi per le ricostruzioni maxillofacciali (spero di averla detta bene, non vorrei che qualche fan del Dottor House venisse a rimbrottarmi).
La mostra che stiamo visitando è stata realizzata soprattutto per passione verso il suo lavoro e il cinema in generale (e non nasconde in cuor suo la speranza di allargarla ed arricchirla).
A questo punto però la conversazione si interrompe e io rimango basito, ritrovandomi senza accorgermene nella perfetta ricostruzione del laboratorio del Dottor Viktor Von Frankenstein!
É tutto lì, tra catene, alambicchi, macchinari, compresa la bobina di Tesla! Sdraiato sul lettino di legno ribaltabile, preciso fino al dettaglio dei vestiti, c’è lui! Il mio amatissimo Boris Karloff! La credibilità è totale e ci si aspetta che il mostro cominci a grugnire tendendo le braccia nel tentativo di afferrarci. Sono quasi deluso quando scopro che anche lui è una ricostruzione, purtroppo inanimata.
Ma la tentazione è troppo forte, non posso resistere, fremo, guardo il mio ospite e chiedo : “Posso…?”. Uno sguardo benevolo che non fa che rafforzare l’aplomb da serio professionista che lo caratterizza, e poi con tono comprensivo “Ma certo, puoi fare quello che vuoi”.
Non me lo faccio ripetere due volte e, messi da parte gli ultimi brandelli di quella serietà professionale che non ho mai preteso di avere, mollo tutti e corro ad abbracciare la creatura nel laboratorio.
Colonna sonora nella mia testa: Frankenstein cha cha cha – Sigue Sigue Sputnik.
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