Casa dei miei carissimi genitori, prima settimana di dicembre, colonna sonora “Tu scendi dalle stelle” dalla vecchia musicassetta che mia madre frusta ossessivamente per tutto il periodo natalizio, da almeno vent’anni.
Ah, la magia del natale!
Il riscoprire le calde e rassicuranti abitudini della casa familiare da cui mi sono allontanato, mettendo una distanza minima di sicurezza di circa 80 km!
I pasti pantagruelici, il diger seltz, l’albero, i canti, i parenti che non vedi mai ma che dovrebbero starti simpatici in virtù di non si sa quale vincolo di sangue, il gatto che non manca mai di pisciarmi sulla giacca.
In una parola, le tradizioni!
Ed è proprio per onorare il senso delle tradizioni che contagiano anche me che, finalmente, dopo più di una stagione di grigia puntualità, mi regalo e vi regalo uno scoppiettante roboante ritardo, come ai bei vecchi tempi.
Poi a Natale si sa, siamo tutti più buoni, persino la cucina di mia madre.
Quindi nemmeno io posso esimermi dai candidi sentimenti di cui è pregno dicembre e ho pensato bene di rovinarvi il cenone della vigilia con una sana dose di indigesto rock satanico al 100% direttamente dalla Palude Pontina.
Si perchè questo mese, per chi ancora non li conoscesse, vi parlerò dei Bone Machine, gruppo rock psychobilly totalmente made in Italy che si fa onore in patria e, caso più unico che raro, ci fa onore all’estero.
Per chi di voi invece li conoscesse già, non dirò nulla di nuovo, ma si mettesse lo stesso in silenzio a leggere, se non altro per gratificare il mio smisurato senso dell’ego.
Qualcuno potrebbe obiettare che un gruppo psychobilly, per quanto bravo, c’entra poco con una rivista che tratta prettamente cinema, al che io potrei controbattere che a margine della testata di Taxidrivers c’è scritto “cinema e cultura metropolitana” e detto genere musicale rientra a pieno titolo sotto la dicitura “cultura metropolitana”.
Tuttavia preferisco chiudere in anticipo ogni dotta disquisizione che potrebbe scaturire da questa mia affermazione, tagliando la testa al toro e dicendo che nella mia rubrica ho sempre fatto un po’ come mi pare, ovviamente entro i limiti demiurgicamente imposti dal grande capo, l’unica entità soprannaturale che io riconosca, essendo per il resto ateo marcio fino al midollo.
In più non è mica vero che i Bone machine con il cinema non c’azzeccano sapete?
In effetti a parte il bellissimo e recente video “era il re” tratto dal loro ultimo lavoro “Giù nel mio inferno”, che potete visionare a questo link http://www.youtube.com/watch?v=5K5xvB4tH7A per la regia di Federico Zanotti – che ci racconta i retroscena della morte di Elvis, il quale, anziché essere rapito dagli alieni, come molti sostengono, passò a miglior vita su un più prosaico “cesso” di casa – il gruppo si è dato parecchio da fare con le incursioni nel mondo della celluloide.
Al loro attivo vantano ben due partecipazioni come colonna sonora della serie di video documentari Mad fabricators (vol. 5 e 6) e una in Hack Job, film orgogliosamente trash per la regia di James Balsamo.
Ma andiamo con ordine.
Pur apprezzando da anni la band in questione, per darmi un minimo di credibilità professionale e non ridurre il pezzo al tema di un liceale entusiasta (per quanto tornare al liceo mi entusiasmerebbe), anche stavolta mi toccherà far finta di essere un giornalista vero ed andare a parlare direttamente con la fonte.
Presto fatto, perchè il caso vuole che Jack Cortese, la rauca voce del gruppo, al secolo Andrea Grillo, sia una mia vecchia conoscenza, almeno fin dai tempi in cui, lui con la sua vecchia Band, i Monkeys Factory ed io con la mia, sempre la stessa da 22 anni, partecipammo insieme alla compilation Hardcore against pollution, e si parla del lontanissimo 1994…. signori, questa è vera archeologia musicale!
Quindi, tutta questa menata è per dirvi che con il buon Cortese io già ci ho parlato, anzi a dire il vero ci avrei già dovuto parlare almeno da settembre e devo ringraziarlo per la sua pazienza con i miei ritardi dovuti all’essere sballottato da un festival all’altro.
Per scoprire cosa mi ha detto dunque basta fare un salto indietro di qualche settimana e andare ad una piovosa serata autunnale da Billy’s bones, colonna sonora: “Baby brother” di Bill Carter & the rovin’ gamblers.
Per chi non lo sapesse Billy’s bones è il negozietto di Jack ad Aprilia, un posto affascinante, un incrocio tra la bottega del vecchio cinese di Gremlins e Arnold’s di Happy Days.
Una volta ci andavo più spesso e ho di quel posto decisamente dei bei ricordi.
Ci si può passeggiare dentro per ore e trovare sempre qualcosa che ti stupisca, qualcosa di introvabile o semplicemente di curioso.
Ad esempio là comprai un cd di Gene Crazed, il rocker con il ciuffo più calvo d’Italia, robetta decisamente sopraffina, a cercarlo altrove credo che non lo avrei trovato nemmeno se avessi scuoiato e messo sotto sale il commesso di un qualsiasi altro negozio di dischi.
Non sono però solo i dischi a farla da padrone, vi è anche una vasta scelta di gadget e vestiti che, per chi ha il gusto dell’ostentazione come il sottoscritto, rendono quel luogo la cosa più simile al paradiso delle Uri promesso dall’Islam.
Vengo a sapere con mio grande rammarico che la crisi ha picchiato duro anche da quelle parti e che il negozio chiuderà i battenti il 28 di questo mese.
Un’altra vittima illustre immolata sull’altare del dio mercato, un altro buon motivo, se non ce ne fossero già abbastanza, per uscire da un sistema come quello capitalista che non ha rispetto nemmeno per posti unici come questo.
Jack/Andrea mi accoglie cordiale, insieme ai cani e ai gatti che gli fanno compagnia durante il lavoro. È rimasto ben oltre l’orario di chiusura per fare l’intervista e questo dimostra anche la sua umiltà, rispetto a tantissimi altri musicisti o sedicenti tali, che non mancano mai di mostrare la loro boria, pur non potendo vantare un curriculum nemmeno lontanamente simile.
Di lui che dire?
Quarant’anni portati così bene da far pensare che tutti gli ammiccamenti al diavolo di cui sono pieni i suoi testi non siano solo una licenza poetica; una buona parlantina e una dialettica attenta tradiscono il retaggio dei suoi studi in lettere interrotti con successo. Ironico quanto basta da non prendersi mai sul serio, al contempo non permette però a nessuno di prenderlo in giro.
Si muove perfettamente a suo agio nel suo ambiente e tra gli argomenti di cui parliamo, segno che ama ciò che fa, cosa che di questi tempi lo rende un fortunato tra i mortali.
Lo dice chiaramente anzi: dodici anni fa diede vita a Billy’s bones “animato dalla passione per la monnezza che vende”.
Un’elegante animale istintivo che segue le sue varie passioni parallele, come la musica, scoperta a tredici anni, quando suo fratello tornando da Londra portò una discreta quantità di vinili. Una passione che ha animato l’estetica della sua vita e di cui non rinnega nulla.
Parla con affetto e nostalgia dei Monkeys Factory, la sua esperienza formativa .
Iniziò a suonare come facemmo in molti, un po’ per fascinazione, un po’ per affascinare, un po’ per dire qualcosa, ma soprattutto per amicizia. Un’amicizia che lo lega alla sua band originaria anche quando muta pelle e passa ai Bone Machine, anzi la formazione base comprende altri due membri dei Monkey’s Factory.
Negli stessi anni, parallelamente, prendono vita Gozzilla e le tre bambine coi baffi, un progetto che dura tutt’oggi.
Il primo cambio di formazione con i Bone Machine lo si ha con l’entrata di Riccardo, aka Big Daddy Rott che all’epoca suona ancora il basso elettrico, prima di buttarsi allo sbaraglio su un contrabbasso rimediato per caso.
Qualche tempo dopo, nel 2004/2005, problemi familiari costringono il batterista a ritirarsi ed ecco che subentra Carlo che indossata la maschera da wrestler diventa Black Macigno e siamo quindi alla formazione completa ed attuale.
La frittata è fatta e la band è pronta a salire sui palchi con tutto l’armamentario di testi satanici, solo apparentemente disimpegnati, film horror e di serie zeta, con tutti i richiami ad una cinematografia sommersa che va dalla Troma a Waters, principali icone ispiratrici, non disdegnando però qualche citazione un po’ più naif e ricercata come gli ammiccamenti ai film de “el santo”, famosissimo lottatore messicano, passato poi alla settima arte con titoli come “el santo contro gli zombie” o “la terrificante notte del demonio”, per finire infine, non si sa bene in quale modo o per quali meriti, col diventare una specie di eroe nazionale Messicano.
Iniziano una spettacolare produzione discografica che oltre ai dischi in solitaria propone una serie di collaborazioni, alcune veramente degne di nota. La più curiosa a mio giudizio è quella con i Melt Banana, gruppo grind noise nipponico che in questo split ci delizia con una versione di “tintarella di luna” tutta da ascoltare, mentre i nostri eroi si cimentano cantando un brano in giapponese.
Come gli sia venuto, non posso dirlo, visto che non capisco un’acca dell’idioma del sol levante, ma almeno l’originalità dell’esperimento va di sicuro premiata.
Il secondo split, con i Mutzi Mambo, del 2006 è decisamente più comprensibile, ed essendo il fortunato possessore di una copia, posso dire che merita di essere suonato a morte sul vostro lettore, fino alla vaporizzazione delle casse.
Chiude la carrellata delle collaborazioni all’insegna dell’orgoglio pontino il lavoro a quattro mani con i Blood 77 di Formia nel 2008.
La formula dai sapori volutamente retrò che cela al suo interno una rara freschezza viene premiata, le date si moltiplicano e ben presto sfondano gli angusti confini della scena nazionale.
Una delle esperienze che Andrea ricorda con più simpatia è quella Berlinese, con un pubblico caldo che accoglie bene Band che cantano in Italiano a riprova che la musica, quando è ben fatta e suonata col cuore, supera veramente tutti i confini.
Tra le richieste di collaborazione non manca come già detto il cinema, a cui l’immagine del gruppo si presta quasi spontaneamente e anche quelle un poco meno gradite.
“Anche di recente un paio di posti fascisti ci hanno chiesto di suonare” confida Jack Cortese, con un ghigno sornione che lo fa assomigliare sempre di più al suo gatto, “Non mi ricordo nemmeno quali” , aggiungendo che ovviamente gli inviti sono stati cortesemente rispediti al mittente.
Già perché, caso più unico che raro, i Bone Machine sono orgogliosamente antifascisti, il che fa di loro delle autentiche mosche bianche nel panorama del movimento rock/psychobilly.
Ovviamente non sono proprio digiuno sull’argomento ma due parole chiarificatrici da parte di un diretto interessato non penso che mi faranno male e di conseguenza non faranno male nemmeno a voi, branco di qualunquisti disimpegnati.
Così Andrea mi da una piccola lectio magistralis in cui mi spiega che questo tipo di musica è sempre stata sostanzialmente non politicizzata ma che a Londra “negli anni 70, in pieno revival rockabilly, una parte del movimento aderì alla formazione di estrema destra del National British, dando quella colorazione nera che poi restò appiccicata anche alla parte sana”.
Anche oggi non mancano i tentativi di strumentalizzazione e purtroppo, sul fronte opposto, non ci sono più gli anticorpi giusti per reagire sul piano culturale come si dovrebbe.
Non mancano le critiche, in buona parte condivise da chi vi scrive, nemmeno sull’ambiente dei Centri sociali, o almeno su buona parte di essi.
Per citare la sintesi di Cortese sull’esperienza degli spazi occupati e sulla loro parabola temporale, basterà dire che : “ Negli anni 80 , all’inizio di questa esperienza, non c’era niente, negli anni 90 qualcosa si è cominciato a costruire, negli anni 2000 c’è stato lo sputtanamento”.
Manca secondo lui (e anche secondo me) un tessuto anche per quello che riguarda la musica alternativa, in Italia non esiste una vera scena, a Roma poi va anche peggio, visto che quel poco che c’è è rovinato dall’invidia tra band che invece di cooperare si rompono le corna in assurde faide nel contendersi vittorie di Pirro che non portano a niente.
Non deve tradire l’aria sbarazzina, o il suo essere coinciso. Andrea, con le sue poche parole, lascia filtrare una profonda capacità di analisi del momento attuale che traspare anche in chiave allegorica nell’ultimo disco dei Bone Machine “Giù nel mio inferno”.
Dietro tanta ironia che può sembrare superficiale, la visione del mondo circostante, nella metafora di un inferno, è spietata. Per un attimo smette di sorridere e con amarezza ammette che “Basta guardarsi intorno per vedere l’idea dell’inferno che ti hanno dato”.
La frase mi coinvolge e anche per la simpatia personale che provo per Jack/Andrea rischio di perdere quel minimo di distacco professionale che sempre cerco di darmi – e raramente ottengo!
Capisco che è il caso di riportare il discorso sui binari dell’intervista che si chiude con la più accademica delle domande sui progetti futuri.
Un pub, un’ associazione culturale, sicuramente nel suo futuro ci dovranno essere musica e birra, per il resto non sa, “Magari emigro in Brasile”.
Meglio non dirgli che come meta di emigrazione io sogno la Cina Popolare o al massimo il Venezuela Chavista.
La discussione si protrae oltre i limiti del dovuto, il cane del mio interlocutore gratta con impazienza lo stipite della porta, per farmi notare che sto abusando un po’ troppo della loro ospitalità e che sto ritardando anche la sua passeggiata serale. Ad un tratto decide autocraticamente per noi che l’intervista è finita e comincia a liberarsi la vescica sul pavimento del negozio.
Capisco che è ora di togliere il disturbo e rimonto in macchina, con il mio nuovo portachiavi a forma di teschio appena comprato che dondola dal blocchetto di accensione.
Il mio ultimo acquisto da Billy’s bones penso con tristezza….
Colonna sonora, Jingle bell rock di Bobby Helms.
Master Blaster