Il bello di avere una rubrica, ormai rodata e ben inserita da più di un anno su una testata più che lanciata come Taxidrivers, presenta certamente innegabili vantaggi: girare molto nei posti più disparati ad esempio, conoscere gente interessante altrimenti (quasi) inavvicinabile, ma, senza dubbio, il privilegio di essere un buon rubricista sta anche nella tolleranza verso certe piccole inadempienze che chi si vuole occupare di controculture metropolitane immancabilmente commette.
L’importante, come in tutte le cose, è non tirare troppo la corda e mostrare quel senso di responsabilità e deontologia professionale che sono proprie di ogni buon giornalista.
Il grande capo si è sempre mostrato accondiscendente verso i miei ritardi di rito e, eccezion fatta per qualche accidente sibilato a denti stretti, ha mostrato una tolleranza verso la mia disorganizzazione che, a mia memoria, non ho mai trovato in nessun altro essere umano, compresi i miei genitori.
Morale: non potevo proprio deluderlo!
Stavolta ero deciso a consegnargli il pezzo, puntualmente alla scadenza della dead line redazionale.
Un gran pezzo, mi verrebbe da aggiungere, dopotutto se lo merita. Così con l’irresponsabile ottimismo che mi caratterizza prometto per il prossimo numero della mia rubrica il ‘personaggione di tendenza’.
E che ci vuole? Ridacchio tra me. Da mesi ormai sto corteggiando un celebre esoterista degli anni 70: è stata dura, ma alla fine mi ha concesso l’intervista.
Mi sento sereno, ma ho fatto i conti senza l’oste e, soprattutto, senza l’evanescenza tipica di certi ambienti. Il mio soggetto è preso da altri, misteriosi impegni. L’intervista salta, rinviata a data da destinarsi.
E adesso?
Adesso panico, ovviamente. Non solo avevo promesso la consegna del pezzo puntuale, ma anche un misterioso e importante personaggio. Quindi il ricorrere agli articoli di ripiego, tipo i servizi sul tempo in perfetto stile “studio aperto” o sulla foca monaca che suona l’Inno alla gioia di Beethoven col citofono, non era proponibile. In meno di dieci giorni dovevo trovare un personaggio di spessore, contattarlo, intervistarlo, scrivere il pezzo e mandarlo al grande capo prima di spezzargli il cuore e fargli venire un travaso di bile con la mia ennesima intemperanza.
Mi concedo una serata libera per cercare la soluzione a casa di alcuni amici e parlando di locali che furono, tra il “Uonna Club”, il “Black out” e il “Torture Garden” viene fuori il nome del “Degrado”.
Ne avevo sempre sentito parlare come di un posto dove la sessualità libera, la cultura transgender, quella gay ed etero, le arti figurative sperimentali e la teatralità si incontravano.
A dire il vero non c’ero mai stato, non perché lo trovassi moralmente discutibile, ma perché essendo sempre stato attratto dalla cultura sadomaso all’epoca giravo per altri posti.
Tuttavia il buon proposito di farci un salto prima o poi c’era, anche se il destino volle che non si potesse mai realizzare perché sei anni fa il locale fu chiuso dalle forze dell’ordine, finendo agli onori della cronaca come “il discount del sesso” e il gestore, l’eclettico Klaus Mondrian venne denunciato per sfruttamento della prostituzione.
Klaus Mondrian! Ecco l’idea!
Artista, provocatore, inventore di iniziative culturali a dir poco clamorose come il silent party, impegnato politicamente, animatore delle serate controtendenza sia nel mondo trans gender che in quello etero, proprietario di una galleria d’arte sperimentale e fondatore dei locali più liminali che Roma ricordi.
Il soggetto è interessantissimo, il grande capo dovrebbe esserne contento, a questo punto la questione è solo sul come arrivare a lui.
Facendo questo lavoro, anche se in maniera amatoriale, ho imparato che la maggior qualità nel mestiere è la faccia tosta, una virtù che chiunque si voglia avventurare nell’ambiente troverà riprodotta in maniera esponenziale mano a mano che si sale di livello. Quindi, dimenticando buone maniere e timidezza, mi attacco al telefono e chiamo Helena Veleno chiedendogli di mettermi in contatto con Mondrian. D’altronde se c’è una persona che conosce ogni respiro nell’ambiente LGBT è proprio lei, che in effetti dopo un paio di giorni mi da l’ok all’intervista e un numero di telefono, con una sola raccomandazione: chiamare di notte.
Un mercoledì notte di febbraio, chiuso in macchina, grandine a secchiate, colonna sonora diffusa da Radio Città Aperta che passa “Dead stars” dei Covenant.
Quando scelsi il nome della mia rubrica, “Dopo mezzanotte” mi sembrava una bella citazione, un poco coatta se vogliamo, del mio albo preferito di Dylan Dog, con cui darmi un’aria tra lo sbarazzino “liberal” e lo sciupa femmine navigato, ma mai avrei pensato di subire l’ironico contrappasso della mia decisione in una notte da lupi come quella che si stava scatenando fuori dall’abitacolo della mia macchina.
Di trovare Klaus al telefono prima del tramonto infatti nemmeno a parlarne e dopo essere riuscito a sentirlo sul far del crepuscolo, riesco a strappargli un appuntamento al “Gender” , il suo locale, con un orario definito con un vaghissimo “dopo mezzanotte”….
Si lo ammetto, stavo tergiversando. La situazione non era delle più comode, faceva freddo, ero stanco, avevo fatto un piccolo viaggio per arrivare a Roma e un altro ne dovevo fare per tornare a casa. E poi c’era quel vago senso di disagio, nell’entrare ed aspettare Klaus, da solo, per un tempo indefinito. Per quel che ne sapevo “dopo mezzanotte” poteva anche voler dire cinque minuti prima dell’alba.
In più non ero mai stato in un posto come il Gender. Le mie esperienze in quel senso si limitavano ai locali di orientamento S/M, e a costo di sembrare limitato, l’idea di affrontare da solo la mia prima esperienza in un club trans gender mi trasmetteva una certa inquietudine. D’altronde sul Gender avevo sentito parecchie storie, tutte discordanti e non avevo la benché minima idea di cosa aspettarmi. Ma come si dice, quando sei in ballo non puoi far altro che ballare, quindi, fatto un bel respiro, suono il campanello ed entro.
Vengo accolto in maniera cordiale, il che non fa che aumentare il mio imbarazzo, facendomi sentire uno stupido per le mie ansie del tutto ingiustificate. Mi impappino, infilo una gaffe dopo l’altra con la gentilissima ragazza trans gender all’ingresso, dimentico perfino il mio taccuino per gli appunti in macchina e la costringo ad aprirmi un altro paio di volte. Lei non fa una piega ed è sempre sorridente. Vabbè – penso tra me e me – agli imbarazzi dei novizi del luogo ci sarà abituata.
Cinque minuti di decompressione su una panca da solo guardandomi intorno, con “You are my world” dei Communards come colonna sonora – e non poteva essere altrimenti.
Klaus ovviamente è in ritardo, anzi no, perché l’allocuzione temporale “dopo mezzanotte” non indica affatto un limite oltre il quale definire un ritardo, semmai sono io ad essere in anticipo.
All’inizio il locale è semivuoto e buio e diviso in ambienti da parecchi tendoni di velluto tranne l’angolo bar, così non riesco a capire quanto sia effettivamente grande il posto.
Ci sono io e tre ragazze trans di cui una al bar, che vedendo la mia aria smarrita, fanno di tutto per mettermi a mio agio, intavolando così una surreale e vivace conversazione che partendo dalle parrucche di Maria Antonietta, finisce a toccare argomenti seri quali la natura di dio, le idee di tolleranza e libertà scaturite dall’illuminismo rivoluzionario e l’attualità sociale delle cause del crollo dell’Impero Romano.
In effetti, di tutte le cose che pensavo potessero succedere, mai avrei creduto di passare la serata al Gender citando Edward Gibbon.
Inutile negarlo, sono piacevolmente colpito. Non so se le ragazze fossero interessate proprio a tutti gli argomenti di cui abbiamo parlato, ma di sicuro sono state bravissime nel condurre una conversazione brillante che mi tranquillizzasse. Nel frattempo le lancette sono volate e Klaus che come la famosa Miriam nel film di Tony Scott, “si sveglia a mezzanotte”, finalmente arriva.
Il primo pensiero, decisamente stupido, che ho nel vederlo, è che nelle foto sembrava più alto, specie nei manifesti di Rifondazione Comunista che lo ritraevano in occasione delle ultime elezioni regionali.
Saluto le mie gentili intrattenitrici e mi accomodo nella saletta per l’intervista. Solo in quel momento mi accorgo di vari schermi sulle pareti che mandano a ripetizione film porno.
Gay, etero, shemale, ce ne sono per tutti i gusti, noto però che mancano quelli di ispirazione Sadomaso. Potrei farlo notare, ma preferisco tenere per me il sottile piacere di sentirmi minoranza trascurata in un locale trans gender.
Parlando con Klaus Mondrian bastano poche frasi per capire che l’interlocutore è una persona di un certo spessore, sicuramente di profonda cultura e che sa sempre molto bene tutto quello che dice, nei vari campi di cui si occupa.
Ha una lucida capacità di analisi, quando parla di politica, eredità della sua militanza nella FGCI fin da giovanissimo. Sa parlare delle questioni di genere in maniera articolata, non dimenticando, anzi collegandole alle problematiche sociali e del lavoro, e rivendica con cognizione di causa la sua appartenenza comunista, un punto a suo favore nel mio indice di gradimento personale. Anzi scopriamo che nei cosiddetti ambienti di lotta antagonista abbiamo molte conoscenze in comune.
In effetti anche il suo affrontare le provocazioni è un momento di controcultura finalizzato “ad abolire lo stato presente di cose”.
Si capisce benissimo quando parliamo della vicenda del Degrado, conclusasi nel 2011 dopo quattro anni di calvario giudiziario. L’accusa di sfruttamento della prostituzione non stava in piedi, finanche il pubblico ministero lo ha capito chiedendo l’assoluzione, mi racconta senza il minimo imbarazzo. Semmai il sentimento dominante è il dispiacere per una vicenda kafkianamente grottesca.
Il momento più surreale del processo è stato quando persino i carabinieri che lo avevano denunciato ammettono che nella sostanza non avevano visto nulla che potesse essere collegato alle accuse che gli muovevano e che il tutto, in assenza di prove certe, si basava più che altro su una “questione di sensazioni”.
“Quasi avrei preferito sentire accuse vere e pesanti, almeno così tutta la questione avrebbe avuto un senso”, dice mal celando un senso di tristezza. Ma il vero problema non era il club in sè, dove la sessualità era libera e gratuita.
Il vero problema era che mentre tutti gli altri club privè erano e sono fuori mano, loro decisero di farlo al centro. Questo perché il Degrado non voleva essere un club privè , ma si proponeva di essere, cito testualmente, “ il locale che per primo ha messo in pratica la filosofia trans gender, un posto dalla doppia lettura e interclassista, dove convergevano intellettuali e borgatari”.
Ci tiene a puntualizzare che il degrado non faceva serate “trans” ma trans gender, lui stesso si definisce un “no-gender” e il suo obiettivo era quello di portare a isolamento i concetti di etero e omosessualità, come quelli di classe e culturali.
Infatti oltre alla componente di carattere sessuale, il posto era caratterizzato da body art performances e soprattutto video installazioni sperimentali.
Questo perché Klaus, pur confessando la sua ignoranza in campo musicale, ha provato fin da giovanissimo un’attrazione incontrollata per le arti visive. Da piccolo si chiudeva nei cinema di seconda visione a Potenza e divorava tutto quello che passava la piccola saletta parrocchiale, dalle scomodissime panche di legno, ricorda.
Una preferenza smaccata per i vecchi film di Bud Spencer e Terence Hill e un “vero feticismo per il catalogo delle Edizioni Paoline” lo guidano verso l’illuminazione sulla via di Damasco. A vent’anni si trasferisce a Roma, dove frequenta i corsi al DAMS, insieme a Vicari peraltro, laureandosi con una tesi su Carmelo Bene.
Finiti gli studi fonda la compagnia teatrale Fon’azione, dove può dedicarsi alla sua grande passione, il teatro, occupandosi anche delle sperimentazioni sonore attraverso i microfoni con cui lavoravano.
Stringe amicizia e sodalizio intellettuale con alcuni autori cinematografici, lavorando dietro le quinte; è colui che reperisce i trans per “L’imbalsamatore” di Garrone, trasforma più volte il suo Gender in un set e recita una parte in Cover boy di Carmine Amoroso
Di cinema continua ad occuparsi marginalmente, anche perché ad una mia precisa domanda, risponde secco e impietoso che in Italia, a differenza di altri paesi, il cinema di per sè ha un panorama molto scarso, per carenza di autori e manca completamente un cinema trans gender.
Per Klaus si tende a dipingere l’omosessualità in termini patetici. Secondo lui non è giusto mostrare l’omosessualità in modo “normale” ma è giusto invece dire che debba avere gli stessi diritti. Invece il tipo di narrazione attuale tende a ricondurre la questione su termini borghesi, mentre l’omosessualità e il trans gender in particolare sono anche e soprattutto controculture.
Il gusto per la teatralità indubbiamente gli è rimasto ancor oggi. Me ne accorgo io ad un primo incontro per la naturalezza con cui alla fine è lui a condurre i punti chiave dell’intervista con un certo gusto per ciò che stupisce. Ma ancor di più lo provano le sue attuali attività: la Mondrian Suite, galleria d’arte non professionista aperta a San Lorenzo, cuore pulsante di tutte le controculture che si agitano sotto l’epidermide ingessata della capitale nel crepuscolo dell’era Alemanno. Con una punta di orgoglio mi dice che a dicembre ha ospitato un festival di body art, e appena scopre che per vivere vendo libri gli viene l’idea di una fusione artistica con l’oggetto/libro. Inutile negare che l’idea mi intriga non poco, anche se non avrei la minima idea sul come realizzare una cosa del genere.
L’altra sua attività oggi è concentrata allo storico Gender, costruito con un impianto fortemente teatrale, dove chi scrive sta conducendo l’intervista, prendendo appunti davanti ad un palo per la lap dance, saltuariamente occupato dalle trans con cui conversavo di massimi sistemi a inizio serata, e sotto i soliti schermi che, come cornucopie dell’abbondanza, continuano a riversare una vasta gamma di scene hard. Tuttavia Klaus non ci sta a ridurre il tutto ad un club privè e lo chiarisce bene con un postulato del Mondrian-pensiero per cui “il privè produce modelli di mercificazione” qui invece regna “l’inversione del potere che c’è normalmente”. Fin da subito un certo settore di intellighenzia avanzata ha capito che questo era qualcosa di più di un privè. Qui si poteva trovare un campionario di umanità pressoché totale e un fermento di controculture.
Inutile girarci intorno, quando si parla in questi termini l’impegno politico è ineludibile. Su questo Klaus è un po’ disilluso, ma non scoraggiato. Dopo l’esperienza delle scorse regionali avrebbe voluto impegnarsi con la lista Ingroia, ai cui dirigenti scrive mettendosi a disposizione. Ad oggi ancora nessuna risposta, “magari hanno pensato che mi volessi candidare, quando io invece mi volevo semplicemente impegnare per dare una mano” sogghigna ridendo. “In fondo Ingroia è un poliziotto che ha studiato”, ironizza, ma poi aggiunge che “ però è l’unico ad essere non invotabile” .
Parlando di politica e trans gender non si poteva ovviamente eludere il fenomeno Luxuria, su cui Klaus esprime un giudizio negativo sia come attivista per i diritti civili, sia come militante comunista. “Legare i diritti civili allo spettacolo lo si può fare solo quando i diritti civili sono già affermati” e in più concordiamo che non ci sono diritti civili per nessuno, se non esistono altrettanti diritti sociali per tutti.
L’intervista si avvicina alla sua conclusione, anche perché sto trattenendo il mio anfitrione da più di due ore e il locale comincia a riempirsi, solo il tempo per un’ultima domanda sui futuri progetti.
Qui Mondrian si lascia sfuggire un tono melanconico, dicendo che gli piacerebbe tornare alla scrittura, magari con un libro. Gli assicuro che quando sarà pronto, sarò tra i primi a volerlo vendere.
Ci alziamo e comincio la sequela di saluti, baci e abbracci alle persone che ho conosciuto a inizio serata. Fuori grandina ancora e quasi in coro mi invitano a rimanere un altro po’. In effetti il tempo non è dei migliori, ma non posso trattenermi oltre. Il viaggio per tornare a casa è lungo, ho ancora un articolo da scrivere e, quel che più conta, un grande capo da non deludere. Colonna sonora in autoradio: “Macho man” dei Village People.
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