Ottobre inoltrato, un freddissimo pomeriggio, Roma centro, la sala conferenze del Senato della Repubblica.
Colonna sonora: Anarchia per l’Italia – Bloody Riot.
Dopo un’estate, e relativi strascichi, oberato di superlavoro e consegne in anticipo a forzare la mia natura di casinista, sono felice di riprendere i miei ritmi e la più bella delle mie abitudini consegnando finalmente il mio pezzo con uno splendido, monumentale e memorabile ritardo.
Per la gioia del grande capo e della la catena di comando redazionale che per tutta la bella stagione si erano sforzati di farmi pubblicare gli articoli e i report puntualmente, talvolta facendomi consegnare anche due pezzi al mese.
Immagino con non poca soddisfazione la loro faccia, delusa dalla vacuità di tanti sforzi.
Ma in fondo ciascuno deve seguire la propria natura e “chi nasce tondo nun pò morì quadro”, come si dice a Roma.
Tuttavia, bontà loro, gli alti papaveri della redazione hanno imparato ad accettarmi così come sono, il che li porta un passo avanti a mia madre e a molte delle mie conoscenze.
D’altronde, sanno che so sempre come farmi perdonare le intemperanze e anche stavolta non voglio essere da meno.
Anche perché altrimenti mi avrebbero già cacciato, non prima di avermi scorticato e appeso ad una fermata dell’autobus come monito ai ritardatari di tutto il mondo.
La nota di rilievo sta nel fatto che per la prima volta Taxidrivers varca la soglia del Senato.
In effetti, con questa tacca segnata sul bastone, l’unico luogo al quale non sono potuto accedere grazie al nome della testata per cui mi onoro di scrivere, resta l’annuale mostra felina alla Fiera di Roma.
Comunque, sia come sia, eccomi qui, intirizzito da un freddo esploso all’improvviso, per nulla riscaldato da un improbabile completo “giacca e cravatta”, rimediato all’ultimo momento per soddisfare i paleolitici regolamenti suntuari del senato, pronto a varcare insieme ad un nutrito gruppo di rappresentanti della comunità Rom della capitale, la soglia di uno dei palazzi del potere ed entrare nella stanza dei bottoni.
Immaginatevi la mia delusione quando ho scoperto che i bottoni non c’erano affatto.
Penso: “Magari i bottoni li ha nascosti Salvini, ossessionato dal timore che qualche Rom potesse rubarglieli”.
In realtà gli ospiti nomadi sono vestiti quasi tutti meglio di me. Qualcuno sfoggia anche un’invidiabile sicurezza da politico navigato (detto col massimo rispetto per i Rom, sia chiaro).
Se c’è uno visibilmente fuori posto che fa sfigurare tutta la compagnia, quello sono semmai io.
Quindi mi accomodo timoroso in una poltroncina in fondo alla sala sperando che la proiezioni inizi il prima possibile, levandomi così dall’imbarazzo.
Il documentario “Dragan aveva ragione” realizzato da Gianni Carbotti e Camillo Maffia con la collaborazione del Partito Radicale e del Senatore Manconi, a cui tocca il compito di introdurre il filmato, narra l’epopea di una comunità Rom di origine Serba che, sistemata in maniera per nulla consapevole in un campo “modello”, abitato prevalentemente da altri di provenienza bosniaca, decide, nell’estate del 2013, dopo un lungo periodo di disagi e soprusi di scappare e cercarsi un’altra sistemazione.
Realizzato con una povertà di mezzi impressionante, dato il risultato finale, gioca moltissimo sul significato nudo delle immagini, accompagnate da una colonna sonora che pescando nel ricchissimo serbatoio dell’underground non commerciale anima l’intero film con una stridente dicotomia.
Ci mostra un universo a tratti freddo come Burroghs, a tratti decadente come Pasolini.
Le immagini degli sgomberi e dei container in fiamme sono gelidamente sostenute dai classici della new wave e il dileggio dell’orgia del potere esplode selvaggio nel punk 77 mentre scorrono le immagini dei vari politicanti che hanno gestito in modo veramente pessimo tutta la vicenda.
L’efficacia e l’impatto del binomio musica/immagini, va ricercata oltre che nel gusto personale degli autori, formatisi con quelle sonorità, anche al lavoro della responsabile del suono Rossana Cingolani.
Il girato è in presa diretta, ottenuto con strumenti veramente minimali.
Una camera Canon digitale, qualche faretto per gli interni, due microfoni filtrati e nulla più.
La nudità delle immagini viene resa potente dal montaggio di Maddalena Colombo che dona alla fotografia scarna ed essenziale ad un’atmosfera metropolitana.
Un paesaggio suburbano dalle dimensioni lunari, all’interno del quale i protagonisti si muovono come i sopravvissuti di una catastrofe di immani proporzioni.
É la modernità, bellezza!
A fare da trait d’union e a sdrammatizzare l’intera narrazione sono gli intermezzi dialoganti girati a casa di Toni Zingaro, attore di origini Rom, noto ai più per le sue collaborazioni con Moni Ovadia.
Questi sipari sono certamente dei piccoli lampi d’allegria che alleggeriscono un testo filmico altrimenti troppo pesante per parole e immagini, ma hanno anche la funzione di una piccola guida alla realtà dell’universo nomade.
Un mondo sconosciuto che noi tutti pretendiamo come assimilato in virtù di una valanga di pregiudizi che ormai abbiamo preso come dati di fatto.
Mi ci metto anche io, che ovviamente non mi considero migliore di altri e ho in tasca il mio bel pacchetto di supponenza.
Per esempio non sapevo affatto che il termine “zingaro” è in realtà un dispregiativo al pari di “negro” o di “muso giallo”.
Deriva dal Greco antico “Αθίγγανοι”, ovvero “intoccabili”.
E dire che mi è sempre piaciuto pensare di avere una certa conoscenza della lingua di Omero.
Sicuramente una conoscenza migliore dell’Inglese.
Altri miti che vengono sfatati sono quelli della pretesa volontà di non-integrazione della Comunità nomade in Italia.
Molti di loro, questo pochi lo sanno, sono cittadini Italiani a tutti gli effetti.
Politicamente consapevoli e partecipi.
Peccato che il più delle volte poi il loro impegno e le loro aspettative vengano tradite da chi li ha usati per insediarsi su una poltrona.
Non amano vivere in campi, né circondarsi di rifiuti.
Ma cosa fare se l’edilizia pubblica non esiste più e i prezzi di mercato non consentono l’acquisto di una casa?
Dove mettere i rifiuti se i soldi che il comune investe nei servizi sanitari spariscono in mille rivoli carsici di appalti e subappalti ai soliti “amici” ed “amici degli amici”?
Aggiungeteci poi che molte aziende perbene, grandi, conosciute e rispettabili pensano bene di smaltire i loro rifiuti tossici proprio a ridosso dei campi nomadi.
“Tanto so zingari… ce so abbbituati!”
Molti di loro infine, preferirebbero un lavoro onesto e sicuro, al vivere giorno per giorno di espedienti.
Prova vivente ne è lo stesso Toni Zingaro che essendo uno dei pochi che ce l’ha fatta, non soffre certo a vivere in un appartamento con i proventi di un lavoro onesto.
Eh si… ma chi assumerebbe al giorno d’oggi uno “zingaro”?
Non molti credo.
A margine della proiezione segue il dibattito con alcune personalità del mondo politico e della galassia Radicale.
Ora chi mi conosce sa che io sono ostinatamente comunista e non di sinistra, come va di moda dire oggi, quindi mi trovo sideralmente equidistante sia da Pannella che da Manconi.
Tuttavia quando si parla di valori trasversali come uguaglianza e dignità che oltrepassano gli steccati ideologici (ideologico inteso in senso buono, come visione del mondo) ed entrano nella dimensione del comune sentire proprio ad ogni essere umano degno di questo nome, credo che sia svilente cercare i distinguo piazzando le bandierine.
Quindi proprio per non sminuire quanto di importante ha da dire questo film preferisco sorvolare su tutti i discorsi che sono stati fatti a latere.
Sia su quelli che mi trovavano d’accordo, sia su quelli che onestamente mi hanno irritato.
Della conclusione di questa giornata preferisco ricordare le strette di mano e gli occhi carichi di commossa determinazione di Dragan e degli altri esponenti delle realtà nomadi che ho incontrato.
Gli unici uomini, a mio modesto giudizio, che valesse la pena conoscere in quell’austero palazzo del potere.
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