Ieri sera è andata in onda su Rai3 la prima puntata di Masterpiece, il talent show (o reality game? O talent game? O game show? Boh) dedicato agli scrittori esordienti e alla gara “letteraria” che porterà il vincitore a essere pubblicato da Bompiani con una tiratura di 100.000 copie (che, ricordo ai meno smaliziati, poi quacuno si deve anche comprare perché vera vittoria sia fatta).
Il programma è unico nel suo genere, perché mentre è relativamente facile far gareggiare musicisti o performer vari, ben diverso è applicare la stessa logica televisiva a battaglie di contenuto letterario.
Quando ho iniziato la visione non sapevo bene cosa aspettarmi e mi è parso doveroso sospendere il giudizio.
I Giudici di Masterpiece: De Cataldo, De Carlo, Selasi
Per cui riporto qui qualche mia primissima impressione a caldo, cercando di astenermi dalle valutazioni e trovandomi allo stesso punto di prima di cominciare: da Masterpiece non so ancora bene cosa aspettarmi.
Dal punto di vista meramente televisivo, è chiaro il tentativo di gestire al meglio la difficoltà di cui parlavo poco prima: far combattare scrittori a colpi di romanzi non è semplice come eliminare musicisti basandosi sugli acuti.
Il ritmo per natura assente dalla competizione letteraria è stato quindi cercato a suon di momenti topici “per me è no, per me è sì” dei giudici, che hanno animato non so quanti gironi e quante eliminazioni.
A fronte del “ne resterà solo uno” che va dritto in finale, abbiamo assistito alle eliminatorie “da 70 a 6″ in cui hanno sfilato diversi autori cassati (i giudici sanno perché, i telespettatori meno) e i sei promossi, poi ne hanno cassati altri due perché sì, poi i quattro rimasti sono stati divisi in coppie che sono state spedite in luoghi estremi (un centro di accoglienza per emarginati e una balera per anziani ringalluzziti, borderline puro) e sono tornate con il “mandato” di dover scrivere qualcosa in merito.
E lì ho visto materializzato il mio personale incubo di scrittrice: dover scrivere qualcosa in poco tempo e con una gigantesca lavagna luminosa alle mie spalle che riporta la schermata del mio pc, lettera dopo lettera, nel momento stesso in cui io la digito.
A questo punto, un momento leggermente meno concitato del resto, che ho molto apprezzato: i concorrenti hanno potuto leggere per intero quello che hanno scritto e noi sui divani abbiamo avuto l’opportunità di capire qualcosa di più della loro scrittura.
Dopo di che, doppia eliminazione con colpo di scena e proclamazione del primo finalista di Masterpiece.
(Finalista che, se posso aggiungere una nota strettamente legata al mio gusto personale, era quello che meno mi auguravo di rivedere: il trentaquattrenne con la sciarpetta che ha scritto un diario di discesa negli inferi di alcool e vita di strada, emulo dei soliti Fante e Bukowski, tremendamente autocompiaciuto, amico dei perdenti e diligente nel mostrarsi problematico e felice di esserlo. Sulla base della mia esperienza, da simili premesse escono fuori polpettoni incomprensibili, pieni di cliché e più inoffensivi di una ramanzina di mi’ nonna.
Fine della parentesi personale).
Televisivamente parlando, per ora non ho ancora ben capito dove si va a parare.
Forse perché per me è qualcosa di completamente nuovo: vedere nello stesso programma il pane della mia vita, ovvero il lavoro con gli scrittori, unito a un mio superficiale passatempo, ovvero guardare pezzi a caso di reality a caso immaginando cosa farebbero i concorrenti se la produzione potesse dotarli di armi a caso… è stato già abbastanza strano.
O forse perché in effetti c’è stata tanta carne al fuoco, in poco più di un’ora: i giudici, la loro presentazione trionfale e il delinearsi dei loro “personaggi”, gli autori, le prove, le trasferte, tutte quelle eliminazioni, i confessionali, il “coach” e i suoi commenti tagliati a casaccio (“Guardate come si divertono i vecchietti che ballano, io non mi sono mai divertito così! Ma non sarà perché sono vicini alla morte?” Ma non sarà che ci siamo tutti vicini allo stesso modo, e quindi sarebbe meglio risparmiare il fiato per dire cose che abbiano un senso?).
Oltre al contenitore e ai modi legati al programma televisivo e ai suoi aspetti intrinseci, ora, qualche nota sulla materia in sé, ovvero sugli autori e sulle scelte legate alla scrittura che ho visto nel programma.
La cosa che mi è più saltata all’occhio è stata l’assoluta identificazione tra lo scrittore e la propria opera: sono stati privilegiati (c’erano solo quelli, in pratica) gli autori che hanno presentato al vaglio del programma romanzi in cui parlavano di se stessi, della loro vita e delle loro personali esperienze autobiografiche.
Ci hanno quindi presentato le loro personalità, più che le cose che hanno scritto: queste ultime sono state riassunte sommariamente dai giudici nella fase di apertura, una fase già valutativa, in cui abbiamo capito cosa delle opere ne pensavano loro, e nulla di più. Sono stati passati in video alcuni secondi in cui gli autori leggevano passi scelti delle loro opere, che mi hanno confermato l’impressione che un autore sia sempre il peggior lettore di se stesso.
Quello che il programma ha dato sono le personalità, le storie: l’operaia riottosa che ha riversato nel fantasy la sua voglia di riscossa, il carcerato chandleriano, il trentenne “maledetto” che ha patito il freddo e la fame, la ex anoressica che ha scritto di una ex anoressica, il concentrato di complessi ambulante, il maratoneta che si astiene dal sesso (che infatti, povero, è durato un secondo e uscito di corsa).
Ai titoli di coda, poi, diversi spezzoni simpatici ed efficaci, in cui scrittori pubblicati davano alcuni consigli su come scrivere bene ed evitare i classici errori degli esordienti.
Questo mi ha portata a una domanda: ma quindi questo programma è dedicato agli autori esordienti? Quindi sono proprio loro il target specifico?
Qualunque sia la risposta, torniamo a un discorso strettamente letterario: posso dire con una certa sicurezza (e dodici anni di manoscritti esordienti alle spalle) che questa coincidenza tra personalità travagliata e opera autobiografica è di solito un ingrediente micidiale dei manoscritti nel cassetto.
Con il passare degli anni e delle pagine mi sono accorta che le opere parlano sempre degli autori che le hanno scritte… ma che è meglio che gli autori non lo facciano tanto direttamente, specie se alle prime armi. Cosa, questa, rimarcata tra l’altro da diversi dei consigli finali dei titoli di coda.
Certo, probabilmente la logica televisiva spinge verso il personaggio, verso la storia personale riconoscibile e ben confezionata che possiamo attaccare alla fronte del concorrente per ricordarcelo e fare il tifo. Questo non è un male di per sé, è solo un meccanismo, un modo narrativo che in TV funziona. Spero che non sia tutto e non sia tutto qui.
Perciò aspetto di vedere le prossime puntate di Masterpiece, i prossimi concorrenti e cosa ne sarà di loro. E spero di non dovermi mai trovare in una scena come quella che ho visto stasera, perfetta per un mio nuovo, prossimo incubo:
- in un ascensore trasparente e silenzioso che sale e basta per 59 secondi;
- di fronte a Elisabetta Sgarbi truccata da Willy Wonka che mi guarda a labbra strette;
- con il compito di performare un elevator pitch relativo al mio romanzo nel cassetto;
- (con un romanzo nel cassetto);
- a Torino.
Continua nelle prossime puntate!
E a voi è piaciuto Masterpiece? Lo rivedrete? Che impressione vi ha fatto?