Con questa tensione intendo leggere il primo testo del libro di Giovanni Nuscis:
Una muta di occhi
ti insegue
nella notte vascolare
nell’intrico di rivoli
e fiumane di rubini
bilie di ossigeno in corsa
lungo navigli di arterie
Colpi di tosse
brevi
e vai avanti.
Attendi per fermarti il fiato caldo
sulla nuca
l’ala sulla scapola.
La mano nel buio
nell’altra
invisibile di brina
e ben venuto sei
nell’ascendenza infinita
(p. 17)
Basterebbe fermarsi su questo testo per cogliere alcuni passaggi del discorso a cui ho accennato prima: la poesia è una lingua che attraversa il corpo prima di diventare parola, giunta dall’intrico di vicoli lungo navigli di arterie. Giunge attraverso i condotti acquatici del corpo; sulla nuca, l’ala sulla scapola.
Qualcosa che arriva, dunque, si fa contaminare dal fiato, vuole voce, è data, è la parola data. Tutto questo dalla confusione, dalla dispersione degli anni, da tutto il tempo.
Questo testo iniziale è dunque un’accoglienza, un volo verso il corpo, la cassa di risonanza di questa voce. E allora prosegue il viaggio di questo corpo che porta il fardello della voce nel mondo: nel quotidiano nostro, doloroso e sbalestrato; nel ventre della città, nel suo delirio; nella sua accoglienza pagata a caro prezzo; un dire diverso verso cui la tecnologia ci conduce.
Rimane, però, febbricitante ma ancora salda, la dignità della parola, la resistenza a un perdersi, a non frangersi. Ma anche con rabbia, con risentimento, con armi spuntate: con immagini piene, malgrado tutto, a tutto tondo, scolpite senza perdere il senso del contorno, dell’immagine, in modo che tutti possano capire:
Da un fitto di voci
sali a fatica
raschiando la pancia e il viso…
(p. 54)
Figlio in piena notte
bagnato, la pioggia
d’un incubo o di un sogno.
(p. 45)
Invecchiano gli angoli,
da acuti si fanno ottusi.
(p. 50)
ma si potrebbe continuare a lungo.
Ci sono passaggi, poi, dove la lingua si sporca, accoglie parole inusuali, immagini forzate, cosa che sempre avviene quando si vorrebbe incidere, uscire fuori dal mondo, adottare la formula del grido. E invece non c’è il grido. C’è, piuttosto, una tendenza a rintanarsi; il nascondimento:(la coperta del cielo, p. 40); (mai/aperto a un sorriso, p. 50). Contro la bestia in agguato: (Sfonda la rete la bestia/e si sconosce e teme, p. 61).
Nei suoi passaggi migliori il libro stride nell’affronto del dentro e del fuori; tra una parola che si ostina a non rinunciare alla sua funzione di mezzo, e il fuori che preme, maschera orrifica della modernità.
(Sebastiano Aglieco)