Qui la parola segna un rischio, un pericolo. Quello di un improvviso consegnarsi nelle mani di un nemico come serpe in segno.
Il pericolo è dunque, nella lingua, nella sua libertà alla rinuncia, a precipitare nel silenzio, permettendo al nemico di pascersi a caldo come vescica sulla pianura della lingua..
La lingua è baluardo, ma anche arma. Attacca il mondo nell’unico modo che gli è possibile. E cioè inventare immagini che sappiano cogliere esattamente lo sfacelo, il falso del mondo, attraverso un ragionamento per immagini, franto, non logico. Così, in molti passaggi, assistiamo alla convenzione dei riti e delle cerimonie, alla rivolta degli oggetti, in una scena di matrimonio «crolla ciò che non si pensa […] cadono le cose, non si tengono e/non invecchiano nella mano che le ospita», p. 50. Se il mondo si rivolta contro, decide il suo destino e il suo compasso, deve essere all’altezza della lingua, altrimenti il poeta deve dirlo: «mio dio amico/mio, non vorrai vivere per sempre in questa Dalston», p.51.
Questa, però, non è la lingua che sferza, ma che si sferza. Coglie le pustole e le slogature nel corpo del suo stesso statuto.
Se essa è corpo del mondo nella sua forma di coscienza sotterrata, questo sferzarsi è prendere atto della malattia del mondo, trovare i medicamenta della coscienza. «dacci oggi nostra quotidiana spranga/per farne feritoie in cui incastrare i corpi», p.48.
Ma una lingua si fa anche assalire, permette che gli oggetti entrino nella pagina assalendo e scambiando le strutture delle sue ossa. Questo ferirsi, ferire il mondo, sloga la lingua e la imbratta, e se da una parte la conduce verso il racconto di qualcosa, dall’altra la specchia su una superficie che distorce: le membra delle mani, le voci enormi, «s’inforra/la sua distesa, la linea che la vista non sgabbia», p. 17. Il racconto, insomma, è molto concreto; si sente il suono del mondo come una balena morente alla deriva, assalito da una lingua arpione. Il pericolo è in questo passaggio della lingua sui corpi; nel rischio di addolcire le labbra della malattia permettendole il disastro del non senso, lasciando libere le parole verso lo scialo della giostra, del consumo in se stesse: «si apre e si chiude qui la morsa lassa/e crolla ciò che non si pensa. Se ne va/la tazza, il caffè si allarga e ovunque si spande,/cede il piatto fregato al pranzo nuziale, la meringata/seduta e disciolta», p. 50.
Sebastiano Aglieco