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Materiali da “Land”: Marco Munaro

Da Narcyso

Marco Munaro, SEI E DIECI, disegni di Cosimo Munaro, Centauro Edizioni 2008

Marco Munaro - IL PONTE DEL SALE/07 04 2011
Chi ha conosciuto l’esperienza di essere padre, sa benissimo che il corpo non è più solo nostro; che lo dobbiamo, come un’acqua buona che si svena dalla sua sorgente e trapassa, lentamente, nelle rive del mondo. Il padre, così, è diventato passaggio, terra buona da calpestare perché il figlio possa imparare a intuire le vibrazioni, i pericoli e i rischi; ma anche le possibilità, il sentore del mare per prendere il largo.
Marco scrive questo poemetto a contatto, pelle contro pelle, in un’ora precisa del tempo e dello spazio: “Come nella più bella/domenica della tua vita,/ad Adria, camminiamo//e non abbiamo ancora/compiuto dieci anni”.
Marco, il padre; Cosimo, il figlio. Ma sembrano, entrambi, due bambini, ancorati alla bellissima nave azzurra dell’ultimo disegno,- l’ultima di una lunga serie – con le stelle che la circondano; con la vela del buon ritorno verso casa. Non più perduti, smarriti oltre le colonne d’Ercole.
Hanno levità alcuni di questi testi, una cantilena leggera. O il tono alto; come un racconto. O rotolati fra le gambe, mentre si saltella la corda. Altre volte, misteriosi, abitano la complessità del pensiero di cui il padre si nutre nella malinconia, lieve e celata, di un turbamento: “Perché la campitura non ha fine/se ci sei dentro/e basta una trave per sognare,/per vedere il bosco, la terra, le nuvole/i volti di chi ha lavorato e patito/le tracce o gli indizi/di un delitto che ci riguarda”.
Appare ancora una nave a custodire questi versi appena detti: dei piccoli triangoli che si staccano, che viaggiano, mossi da un vento, verso una grande casa dal tetto rosso e dalle finestre gialle. E sopra vi campeggia il nome: AAPA’. Queste parole di un ritorno, sono per i triangoli liberi; liberi eppure precisi: il bimbo è un triangolo equilatero, profondo. Scopriamo che i muri della casa sono trasparenti; che vi si può passare attraverso “finché non diventiamo CASA”. Viaggio e attesa, dunque. Crescita e arrivo; sguardo frontale e sguardo sognante.
Sei e dieci è, dunque, un poemetto della custodia, della sosta nella casa. L’acqua amara che i poeti bevono, forse si acquieta nella dimenticanza della lontananza; nella visione di un confine stretto, da dove si possa guardare “laggiù il dolore/crescere sulle città”.
Finchè, una di queste navi non finisce per assomigliare a un’astronave , luccicante, sotto un fanale di luna e due stelle dorate; striata come un sontuoso arcobaleno, retta da un’enorme albero maestro, nero; il grande corpo blu, gli occhi degli oblo illuminati da dentro. La massima distanza, forse, dal mondo, dall’impossibile: “L’impossibile tu lo tracci,/lo tenti/gli dai modo di esistere”. Ci sono le stelle, subito dopo, stelle sottili, sublimi. Il viaggio diventa una galoppata fra gli astri silenziosi, concavo il passo, la nave concava, come a voler assumere la forma dell’universo curvo. Qui i pensieri si fanno promessa del dolore e della trasformazione: ”incocco la freccia che ti colpirà/e colpendoti ti farà occhio ombelico, fune/albero, lontananza e oscuro/oscuro oscuro oscuro salire e sentire/tra gli astri?”
Sono le immagini di un’innocenza che vuole essere custodita, a tutti i costi, come promessa di un ritorno verso la casa. Dopo le perdite e gli abbandoni, uno sguardo buono che il mondo non può contaminare. Il padre riporta sempre qualcosa dal suo viaggio: “tutto quello che avevo lasciato perduto/nell’immenso labirinto del mare”.
Sebastiano Aglieco


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