Materiali da “Land”: Roberta Dapunt

Da Narcyso

Avvertiamo la voce di una necessità “impoetica” in questa poesia; di una musa che ha le mani callose della terra incolta, del raccolto e del latte della madre. Poesie scritte in altitudine, quasi per metafora di una separazione, di una lontananza dalla lingua dei letterati, tramandata in varianti e consonanze che non ci riguardano.
Duro lavoro, preghiera, morte e vestizione, latte, mietitura: “Io non ho motivo di mietitura,/poiché dentro non mi cresce l’erba./Io non ho causa di poesia,/ché per essa mi marciscono le parole in bocca/prima ancora di averle raccolte”, p.3.
Così le parole appaiono sfrondate, rudimentali, non rinunciano alla scorza dell’origine. Mai si avvicinano alla bellezza, forse per paura di sporcarla, di costringerla al sacrificio della rinuncia a un estetismo: “Io non riesco, non mi è dato scrivere il bel canto,/mai potrò descrivere l’incomprensibile bellezza,/non so farlo”, p. 30.
Poesia di mani, di dure mani che conoscono la fatica del vivere e della resistenza, mani di letame e di silenzio: “Vi guardo spesso silenziose mani,/vi guardo e non vedo niente, non sento niente (…)Mani profumate, mie mani cafone/e io nemmeno so alzarvi a un’orazione”, p. 5.
Poesie scritte per una necessità semplice: “Io non ho altro,/da me non parte nient’altro./Leggimi quindi. Rimani e siedi./In fondo non chiedo nient’altro/che essere guardata in faccia/e negli occhi spalancati.”, p.23: parole che sembrano ricordarci il luogo dell’ascolto, necessario a ogni esperienza di condivisone, fosse anche per il silenzio stesso.
Così questa poesia spesso si fa requiem, colloquio con i morti e con la croce; ma anche un salmodiare per i giorni che trascorrono, dove il destino di ogni cosa è scandito dal trascorrere di un tempo circolare, dai riti del lavoro e della fatica: “Tutto è qui. Qui è l’avvenire,/qui è il tempo che passa e la morte che viene,/in questo gesto comune è la mia alleanza/posta fieno su fieno,/letame dopo letame,/solitudine per solitudine,/nell’amore alla vita, perché vita è l’unico supporto,/qui su questo percorso, umile gioia dei giorni”, p.8.
Poesie scritte al confine di una finestra che separa; riassuntive, in cui le cose si depositano nella loro essenza: “Scrivo per vivere meglio le abitudini della mente./Ripeto a voce i versi e li riscrivo/nel buio pesto e ad occhi chiusi,/finché in essi rimane l’anima soltanto”, p. 25.
Poesia come rosario, gesto salmodiato nel silenzio e nel buio come rito conclusivo della giornata: “Tu mia stanza,/paziente angolo di questa casa/(…)Tu grande orecchio che ascolti (…)/Tu mio tabernacolo/(…)Tu mio rifugio, mia arca/(…)Tu mia certezza, mio feretro/(…)”, p. 24.
Non devono niente a nessuno queste poesie, se non alla necessità del dio che duramente le ispira, un dio che abita le malghe, una terra di confine, e che parla una lingua dura e incomprensibile: “Gente ladina, così piccolo il nome/volge gli occhi e guarda lontano,/gregge minore anche noi in affittanza sul mondo”, p. 20.
E’ una dichiarazione di poetica, a dirci che la poesia non si ammanta del lusso ma dell’umile dettato di una porta, socchiusa tra il buio di una stanza e il mondo che la richiama alla luce. Capace di raccontarci perfino la morte di una gallina come fosse la scena di un supplizio che riguarda tutti.
Insomma, la poesia non è serva; neanche delle stesse parole: “Aprirci, venderci come puttane alla malinconia/per un misero verso, per le poche parole e una/sfiorata poesia”, p. 11.

LA MORTE DELLA GALLINA

Quant’è bianco nell’aia il dicembre
tovaglia d’altare senza Dio
che fa riverente perfino il silenzio.
Ed è un tonfo solo, a bocca chiusa che non consola,
uno sbatter d’ali veloce di piume
in disperata corsa ha da finire il morire.
In fondo allo sguardo laddove è neve, la testa
chiude piano gli occhi dalla lieve agonia.
Aspettare è il dovere che finge indifferenza,
a vita tolta è dato un tempo commovente per raffreddarsi.
Di là da questo, di là dai versi
nel freddo il sangue in fretta s’aggruma.


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