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Matteo Bonsante: colmo di ore e di ricordi

Da Narcyso

Matteo Bonsante, DISMISURE, Manni 2010

Matteo Bonsante: colmo di ore e di ricordi
Uno dei modi, forse l’unico, per accogliere in noi una nozione del divino – non dolorosa, al limite problematica – è riuscire a mitigare la divisione, tutta occidentale, di una realtà transeunte da una ctonia, celate e separate nel seno delle cose; dalle cose stesse. Due realtà che sovrastano, che stanno sopra e sotto me stesso. Accostarsi, quindi, a un’idea di redenzione che permetta di svincolarci dall’immagine di un dio estraneo al nostro grido, se non addirittura inesistente.
Le poesie di Matteo Bonsante, non rappresentano l’occasione per perpetrare gli esiti di una tradizione teleologica, ma il pungolo che una mente costantemente allenata percepisce per avvertire meglio la ri/flessione, e cioè quel sentirsi parte del grande mistero della vita di cui questo stesso dio è parte.
E’ il dio principio che si mostra per segni naturali, “Assieme, sul levarsi/del giorno”, p.24.
I passaggi di questa riflessione sono ribaltati rispetto alle tradizioni in cui la prova dell’esistenza di dio poteva derivare da un ragionamento, o piuttosto, dal riconoscere l’impossibilità di ricondurre l’infinito nella sfera del finito e quindi di allontanarlo per sempre dall’esperienza.
Bonsante, invece, afferma:

Esiste il finito perchè esiste Dio.
Ed esiste l’infinito perchè esisto.
p.30

Se, dunque, il pensiero accetta l’evidenza di un paradosso ragionativo, in cui “l’oggetto” dio si nasconde proprio perchè non è indagabile e non è iscrivibile alla parola come strumento di conoscenza, esso può solo attestare una forma di esistenza del divino per somiglianza:

Abbiamo bramato
specchiarci nel tuo crepitante
brusio disseminato di buio
e di astri.
E ti abbiamo scorto,
con il mandorlo e i prati fioriti,
in una fenditura di lacrime.
p. 36

Somiglianza in una crepa di dolore, perché, se il nostro sguardo è piccolo come il suo, allora noi gli assomigliamo e quindi siamo dotati del desiderio di allargarci e di accogliere in questa piccolezza sovraeccitata, il grande istante che non si spegne.
Questo sostanziale ottimismo, proveniente da un immanentismo problematico, pacifista, forse, lo chiamerebbero i contemporanei, cerca di risolvere la questione dell’esilio riconsiderandola non nel terreno di un confine, di una separazione, ma all’interno della casa dell’essere: siamo esiliati in una casa che non ha porte né finestre ed è disponibile ad ogni irruzione e turbamento. “Mi riavvicino a casa”, dice Bonsante ed è un riavvicinarsi necessario, un gesto da compiere ogni volta.

Quando muore un innocente
bambino
un bruciante moto mi assale.

Ma al fondo di me stesso
subito un luccichio ecco, appare.

E mi è conforto che anche questa
dolente contraddizione si
ricomponga altrove.

In un canto come di Gregoriano.
Che sento in lontananza.

p. 39

Bonsante ci vuole dire, insomma, che non siamo nè morti nè vivi, nè doloranti nè gioiosi, ma tutto questo insieme: “Darsi in dono all’eternità./che è già qui. Ora”, p. 42.
Come si coniuga, dunque, la predisposizione degli esseri senzienti alla domanda, alla richiesta incessante di senso, con questo essere comunque?
La risposta consiste nel prospettare la vita del pensiero fuori dalla sua storia; nel riportarlo a pura attitudine dello sguardo: pensiero essenzialmente bambino e poetico, dotato di quell’attitudine allo stupor che sempre ci ripresenta la casa come nuova esperienza dello sguardo sfuggente al suo stesso senso ma non certo alla promessa, custodita in sé, di una rivelazione di conoscenza per dare corso al cammino.
La parola, lungi dall’essere la lingua limitante e limitata di un piccolo io che si ostina “a voler/sostare qui e ora/ senza cogliere il perenne fluire/della luce/che dall’alto scende/sulla terra./E dal petto erompe.”, p. 50, è, invece, parola del tutto, non lingua di rottura ma di auscultazione. In questo modo è possibile dare senso al dolore: causa necessaria della domanda.

Nell’illimitato silenzio della notte
la poesia vince il segreto sostare
dell’Ora.

Gli astri, emersi dall’eco
profonda della terra,
stillano sillabe per il vivido
ascolto
dei viventi.
p. 51

Questa poesia, insomma, gioca la carta dell’inno, cioè di una forma di preghiera che vuole cogliere, serenante, le semplici parusie del divino sapendo che

Il pensiero che contempla se stesso
è parte di Dio. E’ in Dio.

Se guarda fuori di sé è strappo,
mondo. Divenire.
p. 58

Bonsante non sembra rinunciare a un doppio sguardo, ad un essere non nell’unica direzione di un’armonia – che al mondo non è mai appartenuta – ma nella promessa dell’abbandono.
Dice espressamente:

Solo nel doppio sguardo d’
essere qui e altrove, finito e
infinito,
c’è il lenimento di questa mia
ferita.

Ma più azzurra vorremmo
la tua carezza.
p. 61

E’ l’unico testo di poesia letto in questi anni, insieme a quello di Rinaldo Caddeo, Sirens’s song, in cui si fa implicitamente riferimento a un narciso mondo, divinità che si specchia per cantare l’inno ferito dell’esistenza, restituendo a questo mito, il suo primigenio valore di conoscenza.
Il pensiero, certo, può pensare anche il nulla. Può immaginare, o sognare, che il mondo non esista o che sia apparenza offuscata. Ma dio in sé brucia il nulla, non nel senso di una evidenza del dolore che, dal momento in cui le creature lo percepiscono, risulta incontestabile, ma nel senso della totalità dell’esperienza che accoglie in sé tutti gli opposti; così, la dimensione panteistica di Bonsante saldamente si radica al tempo infinito di un universo che non avrà mai fine.
La parola, insomma, è per sempre.

Sebastiano Aglieco

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