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Matteo Renzi, Presidente del Consiglio dei ministri sulle linee di attuazione del programma di Governo per i prossimi mille giorni, 16 settembre 2014

Creato il 16 settembre 2014 da Paolo Ferrario @PFerrario
Renzi alla Camera  renzi_camera


Signora Presidente, onorevoli membri della Camera dei deputati, vorrei esprimere la gratitudine mia e del Governo per aver consentito la parlamentarizzazione della discussione sul percorso dei «mille giorni». Qualcuno ha dipinto la scelta dei «mille giorni» che il Governo e la maggioranza ha fatto come un tentativo di dilazionare, di perdere tempo. Mai una lettura come questa può essere considerata grottesca e, per alcuni aspetti, persino ridicola. 
Noi siamo assolutamente convinti che i «mille giorni» siano l’ultima chance per recuperare il tempo perduto; sono il cartellone di recupero che si espone alla fine della partita. Dopo aver perso tanto tempo negli anni passati, ora abbiamo l’ultima chance per pareggiare i conti e, se perdiamo, non perde il Governo, perde l’Italia. Ecco perché la gravità e la responsabilità del nostro approccio nasce dalla consapevolezza forte e diffusa che, al termine di questo percorso dei «mille giorni», riusciremo non soltanto a capovolgere la storia di questa legislatura, ma riusciremo soprattutto a rimettere in corsa e in pista l’Italia. 
Dico capovolgere la storia di questa legislatura, perché non v’è chi non veda come il percorso dal quale siamo partiti è un percorso che vedeva, appena diciotto mesi fa, nessun vincitore, nessuna maggioranza, nessuna capacità di eleggere il Capo dello Stato, uno stallo per il quale la legislatura sembrava aver finito, nei primi due mesi, tutto il futuro che aveva davanti. 
Noi non siamo partiti con l’obiettivo di tenere in piedi la legislatura, né siamo interessati a tenere in piedi una carriera o un’ambizione di un singolo parlamentare o di un singolo membro del Governo. Partiamo dal presupposto di dover tenere in piedi l’Italia in una cornice internazionale difficile, per cui, fino a qualche mese fa, il mondo correva, l’Eurozona arrancava e l’Italia rotolava. Oggi siamo in un momento in cui il mondo corricchia, l’Eurozona è ferma, l’Italia ha interrotto la caduta. Ma questo non basta, non è sufficiente. I numeri non sono più quelli devastanti di qualche mese fa: nel 2012, abbiamo chiuso a meno 2,4, nel 2013, nove mesi fa, abbiamo chiuso a meno 1,9, oggi siamo a meno 0,2. Ma chi si accontentasse di interrompere la caduta dovrebbe avere qualche sano problema per il quale farsi vedere da uno bravo. 
Noi abbiamo bisogno di ripartire e di tornare a crescere. Può essere felice la decrescita soltanto per chi non ha mai visto in faccia un cassaintegrato; può essere felice la decrescita soltanto per chi non sa l’odore un po’ strano e innaturale di una fabbrica che chiude; può essere felice la decrescita per coloro i quali non hanno mai visto un imprenditore vedersi respingere in banca una richiesta di fido. La decrescita non è mai felice.
E allora il nostro obiettivo è quello di tornare a crescere, partendo, certo, dal numero degli occupati, il cui passo in avanti – più 83 mila tra il giugno 2014 e il giugno 2013 – è ancora decisamente insufficiente, vista la crisi che si è registrata negli ultimi sei anni con il sostanziale raddoppio della percentuale della disoccupazione, da circa il 7 al 12,6 per cento. Noi abbiamo bisogno di rovesciare e reimpostare la scommessa politica ed economica di questo Paese. 
I «mille giorni» non sono un modo per perdere tempo, sono un modo per dare alla nostra azione l’efficacia e la forza di un progetto che abbia il respiro, l’orizzonte, il senso della missione e della visione. Su questo tema vorrei che fosse chiaro, come punto finale della mia premessa, un obbligo da parte di questo Governo: noi abbiamo il compito, il dovere, la responsabilità di indicarvi dove vogliamo portare il Paese da qui ai prossimi mille giorni. Vi proponiamo di utilizzare come scadenza della legislatura la scadenza naturale, sapendo che è facoltà delle Camere, della Camera dei deputati e del Senato, in ogni momento, negare la fiducia e sapendo anche, con grande determinazione e convinzione, che da questa parte del tavolo non abbiamo paura di confrontarci con gli italiani. Non abbiamo minimamente paura di confrontarci con gli italiani, penso che lo abbiamo dimostrato in varie circostanze, tuttavia se diciamo di arrivare al febbraio 2018 lo facciamo perché prima degli interessi di parte per noi vengono gli interessi del Paese. 
Oggi, l’Italia ha bisogno di una sfida che abbia questo senso dell’orizzontee noi pensiamo che da qui ai mille giorni che terminano alla fine del maggio del 2017 vi sia lo spazio per realizzare quel percorso organico di riforme che andrò rapidamente a enucleare e poi utilizzare il periodo che va dal giugno alla fine dell’anno per consentire alle forze politiche, opportunamente riorganizzate, di dichiarare conclusa l’anomalia italiana con una nuova legge elettorale e presentarsi al giudizio degli elettori in modo chiaro e definito. Noi siamo disponibili a effettuare un percorso di riforme per cui alla fine si possa persino perdere il consenso. Io non credo, perché credo che gli italiani abbiano voglia di riforme, ma sono persino disponibile a perdere il consenso; sono disponibile a correre il rischio di perdere le prossime elezioni. Non sono disponibile a correre il rischio di perdere tempo e, oggi, è una priorità quella di poter dare risposte che partano da una lettura del Paese. 
C’è una letteratura diffusa nella politica italiana per la quale l’Italia è un Paese che deve diventare un Paese normale. L’Italia non sarà mai un Paese normale e lo dico non con il sorriso di chi ci ironizza, ma con l’orgoglio, la commozione, la passione di chi ama questo Paese e i suoi abitanti. L’Italia non sarà mai un Paese normale, perché l’Italia è un Paese eccezionale per definizione, è un Paese speciale per definizione, è un Paese straordinario per definizione. Questo non significa che noi non dobbiamo avere degli standard di riferimento normali, rispetto a tutti gli altri Paesi europei, nella giustizia, nella pubblica amministrazione, nel percorso di riforma e di selezione della classe dirigente. Abbiamo il dovere e per alcuni aspetti il diritto di provare a rendere questo Paese in linea con gli altri Paesi in questi settori, ma negare la specialità dell’Italia significa negare la sua identità, la sua missione. 
Diceva Benedetto Croce che il carattere di un popolo è la sua storia, nient’altro che la sua storia. La storia di questo Paese dimostra che l’Italia ha una specificità e una straordinarietà che noi non possiamo negare; non è soltanto la bellezza di un paesaggio o di un’opera d’arte, è la capacità degli ingegneri, dei lavoratori, degli artigiani, delle persone che hanno fatto grande l’Italia. Nel momento in cui diciamo questo, individuiamo la constituency dell’azione di questo Governo e elaboriamo una polemica non semplicemente istintiva rispetto a quelli che sono stati definiti i professionisti della tartina, ma una polemica che è oggettiva rispetto ai presunti esperti che in questi anni hanno sottaciuto o forse non capito la gravità della crisi, non l’hanno prevista. Prima ne hanno sottaciuto la gravità, poi hanno sbagliato a dare le risposte e, adesso, dall’alto della propria sicumera, immaginano di spiegare a noi che cosa va fatto e che cosa non va fatto. Rispetto al derby tra professionisti della tartina e Italia che si spezza la schiena noi stiamo con questa seconda parte del Paese che è la parte che si sveglia la mattina presto, che va a lavorare e che esige da noi, essendo la constituency del nostro mandato, soltanto due cose: la prima è che noi per primi non ci rassegniamo alla rassegnazione.
Chi continua a mandare avanti la propria famiglia, la propria azienda, il proprio impegno quotidiano, nonostante che tutto fuori sembri cospirare verso l’insuccesso, necessita da parte del gruppo dirigente, della classe dirigente del Paese, un impegno concreto a non accettare di mollare di un millimetro, ma richiede anche a questo gruppo dirigente di individuare con definizione qual è l’orizzonte del nostro impegno. Io sono qui per dirvi questo, io sono qui per dirvi che alla fine dei mille giorni l’Italia tornerà ad avere un ruolo nella situazione politica internazionale, tornerà a fare l’Italia. 
Sono rimasto sconvolto e stupito dal dibattito che ha accompagnato la nomina di Federica Mogherini ad alto rappresentante della politica estera e della politica europea. Mi ha colpito perché mai come in questo momento viviamo una stagione di crisi per alcuni aspetti senza precedenti: Paesi che si sono formati dopo i conflitti mondiali e che sono stati retti da una dittatura oggi perdono la loro unità o la loro integrità. È quello che sta accadendo, e noi stiamo combattendo contro questo rischio in Libia o in Iraq, dove i tentativi del nuovo Parlamento o del nuovo Governo sono per mantenere un’unità del Paese, che non è assicurata dal fallimento, dalla gestione della post-dittatura. Quello che sta avvenendo in Egitto è per noi un elemento di straordinaria attenzione e interesse; siamo stati i primi a recarsi a Il Cairo dopo il cambio di Presidente. Quello che sta avvenendo dopo la fine della Primavera araba, che probabilmente assomiglia più, per i confini e per i contorni, ad un autunno che non ad una primavera, ha visto comunque la presenza italiana in prima linea. E pensate a quanto sia complicata e difficile la situazione nel momento in cui, per la prima volta, si organizza uno Stato islamico con le caratteristiche del califfato, che si propone e si prefigge non soltanto di distruggere alcuni popoli nemici ma di lanciare una sfida radicale all’esistenza stessa dell’Occidente. 
Di fronte a questo scenario, come fare a non valorizzare la politica estera come una grande occasione per rimettere al centro il Mediterraneo ? La Pira l’avrebbe definito il prolungamento del lago di Tiberiade, in un momento come questo. Ma come si fa a non considerare la politica estera come costitutiva anche di alcune scelte concrete ? Perché dalla politica estera deriva la politica di immigrazione, dalla politica estera deriva la valutazione sulla crescita economica, ma dalla politica estera deriva l’identità stessa del nostro Paese e deriva l’identità stessa dell’Europa nel momento in cui, per la prima volta dopo 25 anni dalla fine del muro di Berlino, tornano a spirare venti che per qualcuno dovrebbero assomigliare ad una guerra fredda tra l’Europa e il suo principale vicino, perché di questo si tratta nella discussione con la Russia. La riduzione di questo dibattito a semplice discussione energetica è ridicola ! Si tratta di qualcosa di molto più grande e significativo rispetto al tema del fabbisogno energetico, che peraltro non ci preoccupa per altri motivi. 
Ma questo è lo scenario nel quale ci troviamo, uno scenario difficile ma suggestivo, affascinante, ricco di stimoli. Di fronte a questo, l’Italia che ottiene la guida della politica estera europea è considerata da alcuni professionisti del commento nostrani come una sconfitta, perché della politica estera non dobbiamo occuparci, perché nel mondo globale noi dobbiamo preoccuparci di fare i nostri interessi andando a difendere un settore economico, come se la scommessa sulla politica estera fosse una battaglia, un’impuntatura personale del Presidente del Consiglio. 
Ho conservato i titoli: Telemaco torna a casa a mani vuote (era il giorno dopo il 16 luglio); ho conservato i tweet: adesso non conteremo più niente in Europa, il bullo toscano ha sbattuto la faccia contro la burocrazia europea; non ho conservato il dibattito culturale, intellettuale e politico che avrebbe dovuto seguire a questa discussione, perché non ce ne è stata traccia sui nostri media e perché anche la visita in Africa, prima volta nella storia di un Capo del Governo sotto il Sahara, in Angola e in Mozambico, dove pure è forte la presenza italiana storicamente – pensate al ruolo che da sempre ha svolto non soltanto la cooperazione ma anche il Viceministro dello sviluppo economico, che si è trovato a mediare tra le parti in conflitto per consentire lo svolgimento regolare delle elezioni – è stata cancellata con un trafiletto. 
Alla fine di questi mille giorni vogliamo riportare la politica estera ad essere un elemento fondamentale dell’identità e della storia dell’Italia perché o l’Italia fa questo lavoro qua oppure anche l’Europa sarà più debole rispetto alle scommesse che abbiamo davanti
Al termine di questi mille giorni, in cui l’Europa rifletterà sui propri confini – e mi verrebbe voglia di dire sui propri fini – proponiamo all’attenzione del Parlamento, abbiamo già iniziato a proporre, un sistema costituzionale con il superamento del bicameralismo perfetto, il recupero di un rapporto equilibrato tra Stato e territori, il superamento di enti inutili come il CNEL. È il progetto di riforma costituzionale già approvato in prima lettura. 
Chiedo alla Camera di recuperare uno stile nella discussione. Il Senato ha fatto dei passi in avanti straordinari nel portare a casa un risultato che sembrava improponibile solo all’inizio dell’estate, anche perché fuori da qui il fil rouge che ha collegato il dibattito non è stato quello che collega settant’anni di storia costituzionale alla proposta di riforma costituzionale avanzata dal Governo. No, si è scelto più o meno opportunamente di gridare alla svolta autoritaria e poi contemporaneamente di dire che non eravamo in grado di portare avanti i nostri progetti. Una sorta di svolta autoritaria al rallentatore. Il primo golpe con la moviola fatto nella storia del Paese. Perché ? Per negare la discussione sui punti fondamentali. Da 70 anni questa Camera discute sul fatto che Camera e Senato non possono fare le stesse cose e se siamo arrivati al bicameralismo perfetto è stato non per scelta visionaria e strategica ma per compromesso perché non si riusciva a trovare un accordo tra una parte del dibattito dell’Assemblea costituente che chiedeva la seconda Camera delle professioni e una parte del dibattito in Assemblea costituente che chiedeva la seconda Camera come Camera delle autonomie territoriali. 
Non si può negare la realtà e cioè che il superamento del bicameralismo perfetto è stato oggetto di tutte le proposte di riforme costituzionali nelle bicamerali che sono state istituite nel corso degli ultimi trent’anni. Non si può negare il fatto che la riforma del Titolo V corrisponde a un’esigenza sacrosanta del Paese. 
Io credo che con il voto i senatori abbiano svolto una funzione importantissima perché non soltanto hanno incardinato la discussione adesso alla Camera ma hanno dimostrato plasticamente che il tempo delle rendite è finito per tutti, se i politici per primi hanno il coraggio di mettere in discussione se stessi: tra province e Senato è in atto la più grande riduzione di ceto politico mai realizzata da una democrazia occidentale. E affronteremo volentieri la battaglia demagogica di chi, dopo averci educato all’antipolitica, sostiene che questa sia riduzione degli spazi di democrazia partecipata, perché questa battaglia demagogica l’abbiamo vinta alle elezioni e continueremo a vincerla nei prossimi giorni nel dibattito politico
Ma voglio finire su questo punto. Con il voto il punto fondamentale è che i senatori hanno dimostrato che il tempo delle rendite è finito per tutti, che i sacrifici li facciamo per primi noi e poi li chiediamo agli altri. C’è un elemento simbolico nella scelta del Senato che è straordinario, che è bellissimo, che è il messaggio per il quale noi non guardiamo in faccia nessuno. Guardiamo negli occhi tutti. Ma se la politica è pronta a fare la propria parte allora è nelle condizioni di chiedere a un sindacalista di dimezzare i permessi nella pubblica amministrazione, allora è in condizione di chiedere a un magistrato di fare le ferie come fanno i cittadini normali, allora è in condizioni di chiedere a un manager di avere un tetto massimo agli stipendi, perché dimostra che il tempo della rendita è finito per tutti. 
Una Repubblica democratica fondata sul lavoro non può affondare sulle rendite e al termine dei mille giorni, molto prima, la legge elettorale non sarà più quella di adesso perché questa legge elettorale segna la sconfitta di questo Parlamento e dei precedenti Parlamenti. È la vittoria della incapacità della classe politica. È stata la Corte costituzionale a disciplinare la legge elettorale, allora non si tratta di inventarsi una legge elettorale ad hoc. La legge elettorale si fa ascoltandosi e nessuno può pensare di avere la sua legge elettorale, nessuno. Men che mai il Capo del Governo. C’è bisogno di rispettare gli altri, di ascoltare gli altri, di trovare un punto di equilibrio. Però ci sono dei punti che sono innegabili, immodificabili e indiscutibili. Il primo: mettere in capo a chi vince le elezioni la certezza della vittoria e la responsabilità del fallimento in caso di insuccesso. 
Oggi l’Europa sta vivendo un tempo nel quale in quasi tutti i Paesi non è chiaro chi vince. Guardate quello che è accaduto in Svezia dove pure il risultato politico è chiaro. Gli svedesi hanno scelto di cambiare ma non hanno dato, per la legge elettorale che hanno e in presenza di un forte successo dell’estrema destra, la possibilità a chi ha vinto di poter governare. 
È la stessa cosa che è accaduta in Germania, è la stessa cosa che accade laddove non c’è un sistema di ballottaggio che definisca un vincitore netto, secco, chiaro. A questo vincitore va dato un premio di maggioranza sufficiente e proporzionato che lo metta nelle condizioni di poter affrontare il percorso della legislatura e che lo metta nelle condizioni, se fallisce, di essere il colpevole, non di trovare un alibi. La differenza tra quelli bravi e quelli incapaci è che quelli bravi trovano le soluzioni, quelli incapaci trovano gli alibi. Noi, con la legge elettorale, vogliamo togliere gli alibi a chiunque, ma, togliendo gli alibi, vogliamo farlo subito
Lo dico con estrema chiarezza: noi vogliamo fare la legge elettorale subito non per andare alle elezioni, altrimenti smentiremmo il ragionamento dei mille giorni, ma perché una melina su questo punto, l’ennesima melina istituzionale su questo punto, suonerebbe come un affronto a ciò che è stato detto in questi mesi da autorevoli esponenti delle istituzioni, a partire dal Presidente della Repubblica, il cui discorso in quest’Aula è stato chiaro e forte in ordine alla necessità delle riforme, e sarebbe soprattutto uno schiaffo alla dignità della classe politica, che si dimostrerebbe incapace di trovare le soluzioni. 
Ecco perché io dico, trovando le opportune intese laddove è possibile trovarle –nessuno di noi vuole andare avanti con il bulldozer –, che la legge elettorale è un tema che non può essere da rimandare ai mille giorni, deve essere una priorità per consentire al Parlamento di tornare a esprimere anche una dignità della propria azione. 
Al termine dei mille giorni, noi realizzeremo le riforme che abbiamo individuato e – vorrei dire – in qualche modo già impostato; è come se avessimo fatto nei primi sei mesi la cornice del puzzle, oggi è il momento di mettere i pezzi. Leggo ironie, come: avevi detto che nel mese di marzo avresti presentato la riforma del lavoro… È partita: il decreto-legge e il disegno di legge delega. Ad aprile il tema della pubblica amministrazione: è partito. Il tema del fisco, la giustizia. Verrò molto rapidamente – perché sono già lungo – sui singoli punti, uno per uno, ma vorrei qui rivendicare con grande decisione il fatto che o le riforme si fanno tutte insieme o non si porta a casa il percorso di cambiamento dell’Italia. L’idea di chi oggi ci spiega: ma dovevate iniziare da quest’altro argomento, ben altro è il problema dell’Italia, è il «benaltrismo» che diventa filosofia politica, individuando sempre qualcosa di diverso rispetto a quello che abbiamo messo in campo, ma ignora un dato di fatto e una constatazione oggettiva, per la quale mi perdonerete la brutalità: o le riforme le fai tutte insieme, o non esci con il passo della tartaruga da vent’anni di stagnazione e di blocco, non soltanto dell’economia, ma della credibilità della politica. Ecco perché io credo che le riforme siano lo strumento della crescita. Pier Carlo Padoan e la sua proposta, la nostra proposta, per la ripartenza dell’economia nel dibattito europeo hanno illustrato con molta chiarezza un evidente paradosso: negli ultimi anni dal vocabolario della politica europea è venuta meno la parola crescita, cioè quel Patto si chiama Patto di stabilità e crescita, improvvisamente si è verificata una sorta di crasi casuale, per cui la stabilità è diventata un tutt’uno con l’Europa e si è perso il senso della crescita. Per noi occorre investire bene i 300 miliardi di euro che Juncker ha dichiarato essere pronti da investire per il futuro dell’Europa e dei quali siamo nelle condizioni di chiedergli conto fin dalle prossime discussioni nel Parlamento europeo, e utilizzare i 200 miliardi che vengono liberati dalla Banca centrale europea, chiedendo alle banche italiane di fare la propria parte. Io ho apprezzato la disponibilità – per il momento verbale – che le banche hanno espresso e siccome in questi primi sei mesi più volte ho incrociato le lame con le banche, a partire dal decreto-legge n. 66 sul finanziamento degli 80 euro, oggi dico qui in Parlamento che, se le banche italiane, che negli stress test a mio giudizio saranno comunque più forti di altre banche europee (perché bisogna anche smetterla con questa cultura della lamentazione e del piagnisteo per cui in Italia va tutto male: noi siamo quelli che hanno salvato le banche di altri Paesi; nessuno ha salvato la nostre banche, perché sia chiaro come stanno le cose e qual è la realtà fattuale), sono disponibili a fare la loro parte, andando ad investire finalmente i 200 miliardi non semplicemente sui titoli di Stato, ma recuperando la possibilità di finanziare le piccole e medie imprese e le realtà che investono, allora ci sono le condizioni perché il percorso di riforma abbia un significato e un’efficacia molto più forte.
Però, al termine dei mille giorni, il fisco dovrà essere meno caro e più semplice. Abbiamo già iniziato, checché se ne dica, con la riduzione della spesa pubblica, partita con il decreto-legge n. 66; e con l’investimento negli 80 euro, che noi rivendichiamo con forza, in primis come atto di giustizia sociale e, come secondaria punta di riflessione, per il fatto stesso che gli 80 euro vanno a restituire potere d’acquisto a una classe, il ceto medio, che è stato bombardato e tartassato in questi anni nel silenzio colpevole della politica. La scelta degli 80 euro è la prima scelta di riduzione del carico fiscale. Certo, non è andata a tutti – è vero –, ha coinvolto 11 milioni di italiani. Qualcuno dice che è poco. certo, potremmo e dovremmo fare di più, ma abbiamo iniziato e, nell’iniziare, diciamo qui oggi che il nostro disegno culturale non può essere quello che ci viene rappresentato, per cui dovremmo cercare di imitare altri Paesi europei, immaginando la riduzione del salario dei lavoratori, convinti che questo sia uno strumento per agevolare la crescita. Chi oggi dice che dovremmo ridurre il salario dei lavoratori – come hanno fatto altri Paesi – perché costituirebbe un investimento sulla crescita, non soltanto ignora la realtà italiana, ma definisce una scommessa italiana che punta sulla produzione di bassa qualità, esattamente l’opposto di ciò di cui abbiamo bisogno, che punta sulla riduzione del potere d’acquisto del ceto medio, esattamente l’opposto di ciò di cui abbiamo bisogno, che punta sulla negazione alle italiane e agli italiani del diritto di fare quello che hanno sempre fatto: le cose belle, perché questa è l’Italia, l’Italia che è stata capace di produrre cose belle nel mondo, l’Italia in un mondo nel quale 800 milioni di nuovi lavoratori si affacciano sullo scenario globale, costituendo la nostra grande ricchezza, alla faccia di quelli che dicono che la globalizzazione è un problema: la globalizzazione è l’unica nostra ancora di salvezza, paradossalmente. 
Ebbene, questo tipo di ragionamento sull’Italia comporta – lasciatemelo dire con grande decisione e determinazione – che noi non dobbiamo ridurre la qualità della vita dei nostri connazionali pensando di far fare, a meno, cose che fanno tutti, perché questo tipo di atteggiamento è una spirale senza fine. Noi dobbiamo far fare agli italiani cose che non fa nessuno o cose buone di altissimo livello, certo riducendo il costo del lavoro per le aziende – non c’è ombra di dubbio – e abbiamo iniziato a farlo con l’abbassamento del 10 per cento dell’IRAP, che non è sufficiente. Certo che non è sufficiente. Ecco perché non basta semplicemente la riduzione delle tasse, se poi semplicemente pagare le tasse è un’impresa ardua soltanto burocraticamente parlando: occorre una strategia condivisa e unitaria, che porti alla semplificazione fiscale, all’abbassamento del carico sul lavoro, che perseguiremo fino al 2015, come abbiamo fatto nel 2014 con la riduzione, per la prima volta nella storia, del 10 per cento dell’IRAP, perché di questo si è trattato – di questo si è trattato, checché se ne dica – e con il coinvolgimento del ceto medio. 
Mi scappa da ridere quando sento dire che il nostro modello dovrebbe essere la Spagna: io ho una grandissima stima della Spagna, degli spagnoli, ho una grande amicizia con il Premier spagnolo, ma quando sento dire che il nostro modello deve essere quello di un Paese che ha il doppio della disoccupazione che ha l’Italia, ho la preoccupazione di quale sia il modello culturale ed economico che noi oggi vogliamo affrontare e che vogliamo realizzare. 
Al termine dei mille giorni la giustizia non potrà essere quella di oggi. Oggi la giustizia civile ha un tempo di conclusione della sentenza di primo grado di 945 giorni; i francesi, gli inglesi e i tedeschi stanno sotto l’anno. Dobbiamo arrivare lì. Non è pensabile che il processo civile che oggi noi abbiamo non sia semplificato. 
Il primo decreto-legge, che è già all’attenzione del Parlamento, e i disegni di legge delega studiati dal Ministro Orlando, che ringrazio, vanno in questa direzione. E vorrei ringraziare quei magistrati che collaborano con noi per tentare di risolvere i problemi storici e atavici della giustizia, a partire – lo cito perché è un esempio, un emblema e una storia di successo – da Mario Barbuto, che, a Torino, ha ridotto e praticamente cancellato gli arretrati della giustizia civile e che ha accettato l’invito di Orlando a organizzare in modo diverso il Ministero. 
Infatti, è evidente che non sono le ferie dei magistrati, non è la sospensione feriale il problema della giustizia civile. Non lo è ! Non vi è nessuno qui dentro che pensi che, riducendo le ferie dei magistrati, risolveremo tutti i nostri problemi, ma non vi è nessuno, qui fuori, che pensi che non sia giusto far sì che non vi siano più 45 giorni di sospensione feriale, tra il 10 agosto e il 15 settembre, per una cosa così delicata e importante come il servizio della giustizia
Guardare in faccia la realtà non può essere la negazione di un dato di fatto. E voglio dirlo con molta sincerità: questo processo di riforma della giustizia, per noi, deve cancellare il violento scontro ideologico del passato. Io sono dalla parte di tutti coloro i quali garantiscono, lottano e combattano per l’indipendenza e la libertà della magistratura, e sono dalla parte di coloro i quali questa battaglia la fanno sempre, quando è comoda e quando è scomoda; e la faccio sempre perché credo che sia l’elemento costitutivo – senza dover risalire a Montesquieu – per la libertà di una nazione. 
Chi oggi volesse mettere in discussione la libertà e l’indipendenza della magistratura troverebbe innanzitutto noi, i primi e i più seri ostacoli a questo progetto. Contestualmente, rivendico a questo Governo di essere il primo Governo che è venuto in un’Aula del Parlamento a dire, a viso aperto, che noinon accettiamo che uno strumento a difesa di un indagato, l’avviso di garanzia, costituisca un vulnus all’esperienza politica o imprenditoriale di una persona. E lo dico oggi, qui, adesso. E lo dico perché, quando vi è un’azienda italiana, che è la prima… 
Proprio perché noi rispettiamo le leggi, quando capita a uno dei nostri e viene portata la richiesta di arresto di uno dei nostri, richiesta conforme alla Costituzione, noi, perché vogliamo più bene alla Costituzione che ai nostri amici, votiamo a favore. E non vi consentiamo di esprimere opinioni come quella che ho appena sentito da lei adesso , perché il rispetto delle regole significa dire che un indagato ha diritto ad essere considerato innocente fino a sentenza passata in giudicato e che, se vi è un parlamentare per il quale viene richiesto l’arresto in assenza di fumus persecutionis, noi siamo nelle condizioni, anche se è nostro amico, di votare a favore. Prima viene la Costituzione, poi vengono le vostre polemiche ideologiche.
Voglio dire su questo, però, una cosa molto chiara, voglio dire una cosa molto chiara su questo punto: in queste ore un’azienda, che è la prima azienda italiana, che è la ventiduesima azienda al mondo, che ha migliaia e decine di migliaia di lavoratrici e lavoratori, che stanno a dimostrare che un’azienda italiana può fare grandi risultati, è stata raggiunta da uno scoop, da un avviso di garanzia, da un’indagine. Io dico qui, in Parlamento, di fronte a voi, che noi aspettiamo le indagini e rispettiamo le sentenze, ma non consentiamo a nessuno scoop di mettere in difficoltà o in crisi decine di migliaia di posti di lavoro e non consentiamo che avvisi di garanzia, più o meno citofonati sui giornali, consentano di cambiare la politica aziendale in questo Paese! Se per voi questa è una svolta, prendetevi la svolta, ma questo è un dato di fatto per rendere l’Italia un Paese civile!
Al termine dei mille giorni, la pubblica amministrazione dovrà essere una cosa diversa da quella che conosciamo. Al termine dei mille giorni la pubblica amministrazione dovrà smettere di considerare la digitalizzazione dell’esistente come l’elemento sul quale si gioca l’information communication technology. La digitalizzazione della pubblica amministrazione serve a progettare il futuro, non a digitalizzare l’esistente; serve a consentire al cittadino di essere cittadino, non soltanto utente; serve a smettere di vedere negli uffici pubblici la gente che sta con il telefonino in mano a scambiarsi i messaggi, quando con lo stesso telefonino potreste avere sulla nuvola digitale la possibilità di superare il concetto stesso di certificato. Questo è l’elemento di base della nostra riforma della pubblica amministrazione che è attualmente all’esame del Senato: l’agenda digitale come occasione di trasformazione esistenziale del sistema della pubblica amministrazione e contemporaneamente il messaggio per il quale questo Paese può essere, nel giro dei mille giorni, il Paese leader sull’innovazione digitale della pubblica amministrazione. Può esserlo, e lo sarà, se i tempi di realizzazione della delega da parte del Parlamento, prima, e del Governo, poi, saranno all’altezza delle sfide che abbiamo lanciato. 
Sono praticamente alla chiusura, non ho, però, dimenticato due punti che sono particolarmente rilevanti. Il primo è uno dei punti più sensibili: il tema del lavoro. Al termine dei mille giorni il diritto del lavoro non potrà essere quello di oggi. Io ritengo, assumendomi la responsabilità di quello che dico, che non ci sia cosa più iniqua in Italia di un diritto del lavoro che divide in cittadini di serie A e di serie B: tu sei una mamma di 30 anni, sei una dipendente pubblica o privata, hai la maternità; sei una partita IVA, non conti niente; tu sei un lavoratore, stai sotto i 15 dipendenti, non hai alcuna garanzia, stai sopra sì; tu sei uno che ha diritto alla cassa integrazione, ma dipende dall’entità, dall’importanza, dalle modalità della cassa integrazione ordinaria, di quella straordinaria, di quella in deroga. Questo è un mondo del lavoro basato sull’apartheid
Personalmente dico a quella parte di sinistra più dura rispetto alle necessità di cambiare le regole del gioco sul lavoro che, per come la interpreto io, la sinistra è combattere l’ingiustizia, non difenderla, e dico però contemporaneamente a chi oggi dà poteri taumaturgici alla riforma del mercato del lavoro e del diritto del lavoro che, per recuperare posti di lavoro, occorre una politica industriale, occorre avere il coraggio di andare a raccontare che la dorsale siderurgica di questo Paese, da Genova a Taranto, passando per Terni e per Piombino, non soltanto non si chiude, ma viene aperta e spalancata ai mercati internazionali. Occorre avere il coraggio e la forza di andare laddove ci sono le aziende in crisi, e noi stiamo andando da per tutto, perché si potrà dire tutto del nostro Governo, tranne che abbia voglia di sgattaiolare via. Non so da quanti anni è che non c’era un Presidente del Consiglio che andava a Gela o a Termini Imerese o a Taranto, ma ci andiamo convinti di una cosa: che la politica in questi anni ha talvolta eluso le questioni reali e che dal nostro punto di vista i mille giorni sono l’occasione per definire una missione, un orizzonte. Questa missione e questo orizzonte hanno dei tempi serrati
Io rispetto il dibattito parlamentare, rispetto però anche le esigenze che ci arrivano, non soltanto dalle pressioni, che sono naturali, degli imprenditori che vogliono investire o dei lavoratori che chiedono soluzioni e garanzie diverse, ma anche dalle pressioni di noi stessi, perché si tratta di un tema che tiene insieme gli ammortizzatori sociali, la maternità, la modifica stessa dei controlli delle aziende, che può sembrare un tema banale, ma che è un primo elemento di credibilità della politica: riuscire a scegliere un meccanismo per il quale, quando entri in un’azienda, non entrano tutti sette volte di fila nel giro di un mese, ma entrano tutti insieme; riuscire a fare soltanto questo significa dare finalmente un messaggio di semplificazione delle regole, passando dalle attuali 2.100 a 60, 70, 100 regole chiare, che impediscano le diversità tra il tribunale del lavoro di Prato e il tribunale del lavoro di Arezzo. Guardate i numeri e capite che il tema del reintegro o non reintegro dipende dalla conformazione geografica e non dalla fattispecie giuridica: guardate i numeri!
Bene, se noi saremo nelle condizioni di avere dei tempi certi e serrati, noi rispetteremo il lavoro del Parlamento e ci attrezzeremo per la delega, altrimenti siamo pronti anche ad intervenire con misure di urgenza, perché sul tema del lavoro non possiamo perdere un secondo di più. 
Credo che nella legge di stabilità del 2015 avremo le risorse per ampliare la gamma degli ammortizzatori sociali, riducendone il numero e le dimensioni. Noi dobbiamo far sì che non ci siano più strumenti di cassa integrazione, ma che ci sia un meccanismo semplice per tutti, per cui, se sei licenziato, hai la possibilità di essere accompagnato dallo Stato, hai la possibilità di fare corsi di formazione seri e hai il dovere, al primo, secondo o terzo tentativo di offerta che ti viene fatto, di accettare l’offerta di lavoro che ti viene fatta, secondo il principio tipico delle social-democrazie e delle liberal-democrazie europee. 
Non ho la possibilità, per ragioni di tempo, di insistere su altri temi, ma vorrei che gli impegni che noi abbiamo preso fossero chiari. 
Al termine dei mille giorni ci sarà una legge sui diritti civili, perché non è pensabile che questo tema torni ad essere argomento di discussione politica. Al termine dei mille giorni ci sarà una riforma della RAI, in cui la governance deve essere sottratta dalle scelte del singolo partito. Lo dice il capo del partito più grande d’Italia, che rivendica con orgoglio il fatto di non avere mai incontrato in questi primi mesi l’amministratore delegato dell’azienda pubblica, lasciando la libertà, a quell’azienda, di svolgere il compito che gli azionisti le hanno dato. 
Al termine dei mille giorni o spendiamo bene i fondi europei o i fondi europei porteranno via noi
Al termine dei mille giorni il sito di Expo, con i dati open data e trasparenza assoluta, che sono frutto dell’intervento e dell’impegno che abbiamo messo, saranno il modello per tutte le amministrazioni. E vorrei sfidare chi in questi giorni ha vagheggiato scioperi fiscali. Noi siamo d’accordo sui costi standard. Se ad oggi non sono stati fatti, è perché si è pensato di intervenire in modo centralistico. Dal nostro punto di vista siamo assolutamente disponibili a sfidare le regioni – anche per dimostrare che non abbiamo niente contro le regioni – a individuare i meccanismi all’interno dei quali la siringa, per fare il solito esempio, costa allo stesso modo. Pronti a farlo e pronti a prendere l’impegno, ma c’è un punto fondamentale: chi in questi anni ha prodotto il massimo di centralismo, chi in questi vent’anni ha risolto per scelte discutibili singole emergenze municipali, non può venire a dare a noi lezioni oggi su come si amministra la spesa pubblica, avendo contribuito nel corso degli ultimi anni a gonfiare a dismisura l’investimento verso le regioni e verso le realtà territoriali meno inclini ad essere controllate. 
Allora, noi siamo pronti ad una sfida in positivo in questi mille giorni, ma non andremo da nessuna parte se non avremo il coraggio di affrontare il tema della scuola. Qualcuno ha detto che ieri è stato un errore che i ministri siano andati a scuola. Qualcuno ci preferisce così: ci preferisce chiuso nei palazzi, ci preferisce chiuso nell’ufficio, ci preferisce asserragliato dentro una dimensione di casta. Mi spiace per questi autorevoli colleghi o rappresentanti del popolo. Quei bambini, che voi, colleghi del Governo, avete ieri incontrato, non sono semplicemente destinatari delle 136 pagine del documento «La buona scuola», sono la ragione stessa per cui siete qui, sono la motivazione profonda per cui tutto il pacchetto di riforme è pensato, finalizzato e voluto. 
Se noi continuiamo a considerare la scuola come luogo nel quale lavorano soltanto gli addetti ai lavori, più o meno volenterosi, e non la carichiamo di una forza e di una dimensione politica, con la «p» maiuscola, noi perdiamo di vista l’idea stessa del nostro Paese. 
Ecco perché io credo che questo sia il tempo in cui tocca alla politica tornare a fare il proprio mestiere. I mille giorni nei fatti sono questo, sono il tentativo di non rendere anonima la speranza di cambiamento che le elezioni hanno dato con le elezioni europee. Sono il tentativo di reggere l’urto della speranza che è arrivato il 25 maggio. E sono anche il motivo per il quale su tutti i punti noi non soltanto non ci tiriamo indietro, ma continuiamo a fare l’unica cosa che abbiamo fatto dall’inizio: prendere impegni.
«Ah, ma questi sono annunci». Erano un annuncio gli 80 euro, oggi sono un dato di fatto. Era un annuncio che la politica italiana tornasse a occuparsi di politica estera in un certo modo, oggi è un dato di fatto. Era un annuncio la riforma della pubblica amministrazione, oggi è un decreto realizzato e un disegno di legge in discussione. Era un annuncio togliere da questo Parlamento, nel quale qualcuno faceva lo sciopero della fame perché non c’era modo di discutere della legge elettorale, la possibilità per le parti politiche di parlarsi, di tornare a discutere
C’è un interesse che è un interesse al quale siamo legittimati dal risultato elettorale e, direi, incoraggiati da un consenso che non ha eguali negli ultimi 56 anni in Italia e che non ha eguali in Europa. Ma questo che ci muove non è quel consenso o quella legittimazione. Quello che ci muove è l’interesse nazionale
Chiudo proprio su questo. Si è pensato, negli ultimi mesi, che l’interesse nazionale fosse in contrasto con l’ideale comunitario, con l’ideale globale, con l’ideale europeo. L’interesse nazionale, l’interesse di questo Paese non è in contrasto con l’ideale europeo. L’interesse nazionale è tornare a far sì che l’Italia recuperi il proprio ruolo nel mondo. L’interesse nazionale significa tornare a dire che l’orgoglio delle lavoratrici e dei lavoratori, che si spezzano la schiena e che non partecipano ai convegni e che non sanno che gli algoritmi degli esperti ci considerano falliti, che le banche d’affari ci considerano falliti – le stesse banche che sono fallite e sono state salvate dai nostri fondi –, bene, questo mondo qui, che è il mondo fuori di noi, è un mondo che ha bisogno di una classe politica che pensi all’Italia e agli italiani e che non si limiti costantemente alla polemica autoreferenziale. 

Negli ultimi anni ci siamo guardati un po’ troppo allo specchio, è il momento di aprire la finestra, è il momento di guardare fuori, ed è il momento di cogliere il messaggio che arriva dalle italiane e dagli italiani. Per i prossimi tre anni lavoriamo sui provvedimenti concreti, poi, al momento dello scontro elettorale, vedremo chi avrà consenso e chi ne avrà di più. Ma fino a quel momento, non al giorno prima, continuiamo a lavorare perché l’Italia recuperi il proprio ruolo in Europa e l’Europa abbia ancora un senso nel mondo

daPer #millegiorni lavoriamo sui provvedimenti concreti | Partito Democratico.


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