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Matteo Renzi se ne riforma di voi precari

Creato il 15 marzo 2014 da Cassintegrati @cassintegrati

Non ci sarà un nuovo contratto unico, ma modifiche sostanziali al contratto di apprendistato di Fornero. Il sindacalista: “Dai contratti di collaborazione da uno o due euro l’ora, ai finti co.co.pro e alle finte partite Iva: finché rimangono tutte le altre tipologie non cambierà nulla”. L’inchiesta di Michele Azzu per l’Espresso.

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Del Jobs Act, la nuova riforma del lavoro targata Matteo Renzi, si è parlato per mesi come della ricetta per combattere il precariato. Due le mosse: creazione di un nuovo sussidio (o ammortizzatore sociale) per i precari, e istituzione di un contratto unico di inserimento. Più “flessibile” rispetto all’apprendistato di Fornero, ma volto a scoraggiare le imprese dall’uso sconsiderato dei contratti a chiamata, di collaborazione, dai finti co.co.pro alle finte partite Iva.

All’esame dei dati – o meglio degli annunci, dato che ad oggi del Jobs Act c’è solo un’informativa e nessun disegno di legge – nelle linee sul lavoro tracciate dal nuovo esecutivo Pd non c’è nulla di tutto questo. Anzi, esattamente l’opposto.

Non ci sarà un nuovo contratto unico, ma si procede con alcune modifiche sostanziali al contratto di apprendistato di Fornero. Che ha prodotto solo il 2,4% delle attivazioni di nuovi lavori sia nel terzo che nel quarto trimestre del 2013 (fonte: Ministero del lavoro). Con Fornero l’apprendista, alla fine dei tre anni, poteva anche non essere assunto. Ma se l’impresa voleva prendere un altro apprendista doveva prima stabilizzare – assumendo a tempo indeterminato – quello precedente. Questo paletto ora verrà cancellato.

Le modifiche al contratto di apprendistato, tuttavia, non influiranno su tutti gli altri contratti, che non verranno riformati, né cancellati. Idilio Galeotti è un sindacalista della Cgil che per anni si è occupato di industria, e ora lavora al Nidil, la sezione precari del sindacato rosso. Di contratti ne ha visti di tutti i colori: “Dai contratti di collaborazione da uno o due euro l’ora, ai finti co.co.pro e alle finte partite Iva”, racconta. “Finché rimangono tutte le altre tipologie di contratti non cambierà nulla – continua il sindacalista – Se facciamo una gara al ribasso, sui contratti non ne usciamo fuori”.

In questo senso il Jobs Act sembra giocare al ribasso, spingendo le aziende a un uso maggiore dei contratti a tempo determinato, di cui si cancellano i limiti temporali (già fortemente ridimensionati da Letta). Con il governo Monti, se un’azienda voleva rinnovare un contratto a termine superiore ai sei mesi doveva fare intercorrere ben 90 giorni (60 giorni fino ai 6 mesi). Obiettivo: scoraggiare l’abuso dei rinnovi a termine e obbligare l’azienda ad assumere il precario dopo tot mesi.

Letta e Giovannini tagliarono drasticamente la misura: da 90 a 20 giorni (e da 60 a 10 giorni per contratti fino ai 6 mesi). Rimaneva il messaggio contro l’abuso, ma di fatto l’azienda poteva sempre aspettare 10 giorni, pur di non assumere la persona. Ora Matteo Renzi – dice – eliminerà ogni vincolo: un contratto determinato si potrà rinnovare anche di mese in mese per 36 mesi complessivi. E senza causale, senza cioè dovere indicare la ragione della breve durata del contratto.

La mossa di Renzi viene spiegata dal ministro del lavoro Poletti come un’abolizione delle “norme tortura” che fanno impazzire le aziende. Non la pensa così l’Unione Europea, che da diversi anni chiede limiti stringenti ai contratti a termine, con la direttiva europea 70/1999 sulla “prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato”.

Ma veniamo ai numeri: Renzi e Poletti parlano di 900mila giovani che potranno partecipare al progetto europeo Garanzia Giovani, che punta a dare uno stage o tirocinio a chi ha finito gli studi e non trova lavoro entro 4 mesi (e fino ai 29 anni). 100mila nuovi posti da ricercatore, 10 milioni di persone che prenderanno 10 miliardi in un anno (grazie al taglio dell’Irpef), 300mila precari che verrebbero inclusi negli ammortizzatori sociali.

La cifra dei 900mila partecipanti al progetto Garanzia Giovani è molto lontana da quella di 200mila citata più volte da Letta e Giovannini dall’annuncio del progetto (e che includeva il bonus assunzioni). Inoltre sappiamo bene che se consideriamo i giovani fino ai 29 anni non stiamo più parlando di “neet”, ovvero di giovani che non studiano e non cercano lavoro, ma di disoccupati veri e propri. Persone a cui uno stage o tirocinio pagato non può certo bastare, se non nel breve periodo, se non rimanendo ancora una volta confinati nel limbo del precariato.

Ma i dubbi sulla reale efficacia dello Youth Guarantee, o Garanzia Giovani, sono tanti: è un programma vecchio, partito in Svezia nel 1984. In Italia questo programma è partito in Piemonte già ad ottobre, mentre la Sicilia ha lanciato un “Piano Giovani” solo a fine febbraio. Ogni regione fa a modo suo, senza una guida organica. Ma è l’Eurofond, l’agenzia dell’Unione Europea per il lavoro, a dirci, basandosi sui dati raccolti dai programmi avviati in Finlandia e Svezia negli ultimi 20 anni, che la Garanzia Giovani ottiene risultati nell’immediato. Ma non è in grado di risolvere i problemi strutturali, né di intervenire sul nodo della formazione (centrale in Italia), né di influire sui disoccupati di lungo periodo.

Veniamo infine all’ammortizzatore sociale per i “precari”. L’istituzione della Naspi, o nuova Aspi, dovrebbe infatti includere 300mila nuovi soggetti. In realtà si tratta esclusivamente della categoria dei co.co.pro (collaboratori a progetto), perciò definire il Naspi come ammortizzatore “universale” sembra davvero poco veritiero. Rimangono tagliati fuori tutte le altre persone che lavorano con altre tipologie precarie, con numeri che la Cgil stima attorno ai 5 milioni.

E i tanto sbandierati 1000 euro in busta paga a chi prende meno di 25mila euro l’anno? Andranno solo a chi una busta paga la possiede, cioè i lavoratori dipendenti, forse i co.co.pro. Insomma, un regalo per chi guadagna poco che sembra davvero penalizzare chi guadagna ancor meno. Per un Jobs Act che il precariato, anziché combatterlo, sembra ignorarlo del tutto.

di Michele Azzu l’Espresso

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