Tutto quello che è rappresentato in queste foto, dall’ambientazione alle luci, fino alla dinamica dei gesti fissati su pellicola, mi suggerisce sequenze oniriche. E il mio tempismo nel pubblicarle non è casuale, reduci come siamo dagli abbondanti pranzi festivi.
Non ho ancora capito come recepire il lavoro di Mattia, di cui qui vi presento il risultato del backstage, mentre potete vedere le foto a colori cliccando qui (presentate in mostra ad Umbria Grida Terra, Mercato Coperto di Perugia, 7-8-9 marzo 2014). Mattia è un’altra delle persone visceralmente dedite a “la vita della mente” (come la chiama Coetzee) che ho avuto la fortuna di incrociare a Firenze. La sua lettera, che doveva essere una presentazione informale delle sue opere e qui diviene invece loro testamento efficace perché non univoco, mi conforta in questo senso. Nelle sue foto non c’è una direzione, un senso a cui appigliarsi, non sono foto contro né a favore di qualcosa, sono sulla cosa e per questo disorientano il mio senso del giudizio. Eppure una direzione, seppure accennata, seppure non pratica, ce l’ho.
Nei miei mesi in Asia per oltre tre mesi non ho mangiato carne, per una questione igienica che poi ha trovato una sua giustificazione spirituale ineccepibile, che mi ha finalmente fatto comprendere quanto sia importante che un altro dei miei cinque sensi non fosse più eterodiretto dal principio di piacere (mi piace/non mi piace), ma anche collegato al cervello, per non dire all’anima (cosa sto mangiando?, e ti si apre un mondo). Poi in Bhutan (il più buddista, e quindi teoricamente il più vegetariano dei paesi asiatici) sono stato invitato a cena in casa da gente del luogo, ho mangiato del pollo perchè non potevo fare lo stitico e rifiutare e mi son sentito male. I vegetariani sanno cosa intendo, credo. Poi al ritorno sono ripartito da capo, perché in Toscana, così come in Umbria, la carne è sacra, e gli umbri e i toscani che non rinneghino opportunisticamente la loro tradizione sanno quanto questa affermazione sia corretta, benché non giustifichi un fico secco circa il consumo di carne smodato dei nostri giorni, soprattutto quando proviene ormai quasi interamente dall’industrialismo più bieco. Ma d’altra parte non mi affascina né convince neanche l’estremo opposto, perché poi per questioni naturalistiche si sostiene l’industrialismo più artificioso alimentandosi con prodotti che riproducono il gusto e la consistenza della carne ormai tabù, come il latte di soia e come ricorda un cantautore e amico “la soia non muggisce”.
Tutto questo gran giro per dirvi che le foto di Mattia mi hanno smosso dentro, perché testimoniando una modalità ormai in minoranza ma ancora viva di allevare e preparare la carne animale come avviene nei piccoli macelli locali, hanno innescato un meccanismo che nessuno tra i video beceri sull’uccisione industriale degli animali ha prodotto in me, forse perché postati a ripetizione da vegetariani/vegani che evidentemente non conoscono la letteratura disponibile sull’impatto negativo o nullo degli “appelli alla paura”.
Poiché riconoscere la dimensione sacrale di una tradizione e riconoscermici/astenersene è forse l’unico passo che possa soddisfare la mia voglia di far convivere poetica ed etica, io rilancio queste foto impietose e bellissime affinché ognungo di voi possa esserne colpito secondo la propria poetica ed etica, rinforzando o minando la vostra condotta alimentare e le convinzioni da voi edificate su essa. Senz’altro è difficile rimanere impassibili come avviene con quei video su YouTube, perché la bellezza è il viatico migliore per veicolare una topica, e quella contenuta nelle foto di Mattia è enigmatica, soggettiva e ancestrale, come al termine di essere sarà lui stesso a spiegare in alcuni suoi appunti a tema che avevano originariamente carattere privato che non avevano nessuno scopo programmatico/critico, ma che io ho insistito per rendere pubblici. Il perché lo capirete leggendoli.
“Il Sacrificio (dal latino sacer facere: “rendere sacro”) è quel gesto rituale con il quale dei beni vengono tolti dalla sfera del profano e consegnati a quella del sacro”
Appunti su “Il sacrificio della carne”
La fotografia non è tanto una caccia all’istante da catturare, quanto l’individuazione di una realtà soggettiva. Questa realtà è geometrica, cromatica, ritmica… ma scaturisce necessariamente da un’esperienza sinestetica, mai totalmente visiva. “Il sacrificio della carne” è il titolo pensato per un foto-reportage a colori sull’autoproduzione di una fattoria della provincia perugina. Nato come progetto fotografico sulla gestualità e sulla sapienza della tradizione, in fase di produzione si è trasformato in uno sguardo aperto sul rituale contadino della morte. Perché? Quella che ho vissuto, assistendo all’uccisione e alla preparazione del maiale, è stata nient’altro che la visione, cosciente e reale, di quello che intrinsecamente si nasconde nella storia senza tempo di una semplice salsiccia, come in quella dell’umanità intera: il mistero del sacrificio. Fortissima, fin dalla preparazione dello scannatoio all’alba, è la presenza della morte, l’atmosfera che crea nella foschia mattutina della campagna nel mese di febbraio, il mese della purificazione (“di passaggio” intercalare, nel calendario romano).Il clima è ancestrale. Nel silenzio, impossibile da fotografare, rotto soltanto dalle urla dell’animale e dal rumore delle lame, si consuma un atto che porta in sé, se non tutta, gran parte della storia culturale e cultuale dell’umanità. Il dolore, la morte, lo smembramento, ergono il prodotto finale ed il suo consumo su di un piano superiore, trascendente, mediato dalla tragedia del contadino, che vive la sublimazione misterica, tra compassione e necessità. Il rapporto fisico, corporale, che s’instaura tra il carnefice e la vittima (vedi la foto in cui il macellaio sventra l’animale con il pugnale tra i denti), è quell’identità rurale, d’imposizione animale della specie sulla natura, di cui la società post-industriale non conserva che un flebile ricordo, stuprato dalla massificazione coatta dei consumi. La grande distribuzione industriale ha completamente dissacrato il rapporto del consumatore col prodotto finale, naturalmente oggettivando a merce di largo consumo quello che nell’immaginario delle campagne era ed è tuttora un bene da conservare con un’aura di sacralità indiscutibile. Vivendo la morte dell’animale domestico, da carnefice (chi fa carne), il contadino celebra il valore di un “prodotto” che porta con sé il grande mistero della morte. Esemplare è il momento, che è una vera e propria apoteosi all’interno del rituale, in cui si bagnano le interiora appese con del vino bianco d’annata. Questo passaggio è forse il più alto tra quelli tramandati fin dalla notte dei tempi: è parte del repertorio mitico contadino, nelle sue varianti. Dietro questa prassi -apparentemente insignificante- nel momento finale della giornata, in cui la carcassa si lascia riposare per i tre giorni successivi, c’è un mondo, secoli e secoli di storia antropologica, che vanno dal dionisismo nelle campagne etrusche alla liturgia pasquale del cristianesimo. Spiritualità contadina: potremmo chiamarla così. Il sacro sancisce (quasi un’endiadi sacro-sancire, trattandosi della stessa radice *sac) un’alterità, un essere “altro” e “diverso” rispetto all’ordinario, al comune, al profano. Sono convinto che il sacro si trovi in ogni gesto che racchiude in sé l’eterna contraddizione dell’esistenza, tra necessità e dolore. Portare lo sguardo dell’osservatore sul “sacro” è un modo per diffondere la coscienza del tragico, motore della conoscenza. Nella fotografia tutto è racchiuso nell’immediatezza della rappresentazione, non esiste una logica definita: è un’esperienza totale ed immediata, e per questo poetica. Le foto sono state esposte all’interno di una mostra per la riqualificazione del mercato coperto di Perugia, lasciato al degrado dell’abbandono da parte delle istituzioni per far posto agli squali delle multinazionali alimentari. In questo contesto il lavoro si fa carico di messaggi anche politici (in senso lato). L’esposizione è stata allestita fornendo semplicemente la spiegazione etimologica di “sacrificio”, circondando le fotografie con volantini pubblicitari di fast-food, come McDonald’s e Burger King. C’è chi ci ha visto una campagna pro-vegan, chi un’ostentazione d’oscenità carnivoriste. C’è chi dice che le buone fotografie sono un po’ come le barzellette: se devi spiegarle significa che non sono riuscite bene! Non lo so. Ho semplicemente voluto fornire una chiave di lettura linguistica, perché credo che la lingua sia il più grande deposito del patrimonio culturale di un popolo. “Il sacrificio (latino: sacer facere, rendere sacro) è quel gesto rituale con il quale dei beni vengono tolti dalla sfera del profano e consegnati a quella del sacro.” Il concetto di “sacrificio” così per me acquista, nella pura rappresentazione del reale, una molteplicità di accezioni. E’ il reportage che rende sacra la carne, come testimone di morte. E’ il sacrificio rurale del contadino che immola, con la coscienza del tragico, una vita animale: un rituale d’iniziazione misterica, per ogni bambino o adulto che vi assista per la prima volta. Non escluderei altre chiavi di lettura, semplicemente perché non ho l’interesse di ingabbiare le mie fotografie entro il cerchio chiuso della logica. Mi muovo dal bisogno di far luce sul mistero, e il mistero (dal greco “muo”, che significa “tacere”) non va mai svelato, ma semmai rivelato. E’ il metodo più antico di diffusione della conoscenza: innescare il dubbio per scoprire se stessi.
Mattia Mariuccini