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“Maturina fantesca” di Patrizia La Fonte

Creato il 08 novembre 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Ricordo che da bambina, nella stanza più intima ed accogliente della casa dei miei nonni materni, mi divertivo a sfogliare un libro posto all’ultimo piano di una strabordante libreria, isolato da altri volumi, quasi di forma cubica, con pagine  ingiallite di carta molto spessa ed una copertina rigida che gli conferiva un’aura di pregio ed importanza, ma al tempo stesso, di autorità ed autorevolezza con annesso  mio personale timore reverenziale per l’esimio contenuto.

Insomma un vero e proprio testo sacro delle buone maniere, della buona creanza e del savoir faire: il Galateo di Donna Patrizia, edizione 1939.

Si tratta della prima immagine giuntami appena ha avuto inizio lo spettacolo dal titolo  Maturina fantesca scritto, diretto ed interpretato dalla sublime attrice Patrizia La Fonte, visto in data 1° novembre presso il Teatro Due in Roma, situazione, di certo, generatasi da un’immediata associazione di nomi  e dall’affinità direi puramente elettiva che la protagonista e chi le dona vita sono in grado di materializzare attraendo, nella felice ed indovinatissima “solitudine” di un raffinatissimo monologo, l’intero uditorio sempre attento perché sollecitato, colpito, interrogato, coinvolto.

Piacere e saper piacere oltre che un’arte è infatti una questione di chimica e l’allusione sopra citata si tiene: laddove (in tempi piuttosto bui a dire il vero, che chi scrive, qui,  non intende indagare ) si dettavano ed  insegnavano le regole del corretto comportamento e  dello stare al mondo, sulla scena ormai da circa due anni, Patrizia La Fonte propone un lavoro eccellente  che soddisfa totalmente gli  spettatori da intendersi come lezione da mandar giù a memoria per i profani ed applicare per gli attori.

Lo spettacolo Maturina fantesca assume subito le connotazioni di “exemplum” da un punto di vista tecnico ossia teatrale grazie a doti apprezzabilissime quali la perfetta durata, la semplicità della scena e dei costumi  e la professionalità di un’attrice che non delude mai, perché sempre garbata, raffinata, mai fuori posto o contesto. Patrizia La Fonte  sa padroneggiare con mestiere, naturalezza ed estrema grazia,   il copione puramente tale, tanto quanto l’improvvisazione, che del primo è parte integrante, ma di replica in replica, ça va sans dire, si (ri)presenta imprevedibile e ben   risolvibile con studiatissime strategie  rinvenibili, per esempio, nella commedia dell’arte.

Inoltre l’invenzione drammaturgica  di un personaggio, un testo, uno spettacolo impone di rammentare quanto sia importante  e  necessario il continuo studio  in opposizione a raffazzonati ed improponibili, nondimeno vergognosi e deleteri sedicenti copioni che vivono soltanto in concorsi e rassegne  finanziati da bollettini il cui pagamento è propedeutico per il primario accesso mascherato da fantomatiche spese di segreteria. Vittima  dell’illusione di una vetrina di visibilità  e di un successo mediatico limitato a qualche “like” sono gli “autori” e i possibili spettatori beffati nel vedere, nel capire e nel sentire.

Maturina teatralmente ci rieduca, puntualmente ci redarguisce, metaforicamente ci insegna a distinguere tra un prodotto di consumo  ed uno di sopraffina qualità attoriale, quello da lei proposto (naturalmente) incantandoci con una grazia antichissima  dispensata nei modi freschi, agili, quasi danzanti come in una leggiadra carola e negli atteggiamenti  misurati, pudici ed una lingua per forza di cose brillante giacché  storicamente si colloca in pieno Rinascimento per poi divenire  antesignana del nostro  attuale italiano.

Dalle fonti consultate per la documentazione e per il linguaggio sia on-line che cartacee si evince in primis un attentissimo lavoro bibliografico nel rispetto di un gusto che percorre internamente ed esternamente sia la vicenda monologata  ambientata nel 1519 in un disimpegno accanto alle cucine del  maniero di Clos Lucé presso Amboise, che il personaggio protagonista: dai  codici di Leonardo Da Vinci  (Atlantico, Arundel, Trattato della pittura) si passa alle Vite de’ più eccellenti pittori di Giorgio Vasari , al Decameron di Boccaccio, alle Novelle di Mattero Bandello per poi “infarcire “ tutto…, è il caso di scriverlo, con le ricette tratte dal Libro de arte coquinaria  del Maestro Martino de Como .

Maturina, fantesca ed erede di Leonardo Da Vinci sembra infatti esser direttamente  balzata  fuori da un manuale di economia domestica e riporta alla memoria il vivace prender vita di personaggi filmici  bloccati, come in   fermo immagine, in una dimensione originariamente cartacea: si confronti la sequenza iniziale di Gangster story (Arthur Penn, 1967)   in cui i celebri ladri Bonnie e  Clyde escono letteralmente da una cornice come incastonati in una carta da gioco.

Cuffietta in testa, pianelle ai piedi e abito dignitoso da governante dai caldi colori di tessuti ormai inesistenti, Maturina ci trasmette la festosa ansia di chi attende qualcuno oppure che accada qualcosa…(Ogni epoca ha il suo Godot!).La scena sembra suggerire un trasloco poiché si  percepiscono dalla  forma e dalle dimensioni quadri coperti da bianchi teli…senza alcun dubbio opere del Maestro che la protagonista ha sempre servito con devozione estrema.

Il primo coinvolgimento “interattivo” in sala avviene  ad inizio opera quando Maturina  si scervella per capire chi siano i presenti: la donna dallo sguardo vispo e la deduzione facile sa soltanto che a Francesco Melzi, giovane discepolo di Leonardo, andranno alcuni scritti, mentre Giacomo Caprotti, detto anche Salaì,  pittore e allievo prediletto del genio, erediterà alcuni quadri (“dipinture”)…

Il pubblico che muto la guarda, stando ai suoi ragionamenti, potrebbe esser costituito allora da orafi, gendarmi, banchieri, pellegrini diretti al Santuario di Satiago de Compostela …

Non ricevendo alcuna risposta, comprende che forse vi è un reale problema di  comunicazione  di carattere linguistico che la spinge a domandare spiegazioni in francese, (la Francia è il Paese ospitante) e in fiorentino, idioma madre, ingegnandosi a reperire nelle sue conoscenze un codice che funzioni da esperanto e permetta la prosecuzione di quanto deve accadere…

Si vede Maturina in moto perpetuo provvedere a tutto, per quanto rammaricata di non poter offrire al pubblico nulla, essendo ormai chiusa la cucina e al tempo stesso, provare a trovar un nuovo impiego convinta con saggio spirito popolano e fiduciosa in dio che “mani che sanno fare, sempre pane averanno”. Alle sue “necessitate” farà fronte presentandosi referenziatissima.

L’accortezza drammaturgica di Patrizia La Fonte nel costruire il personaggio di Maturina ( lo stesso vezzeggiativo la rende simpatica come un’Amélie dei nostri giorni) e la sua  contestualizzazione  si avverte subito nella persistenza di una lucida prospettiva storicistica e nell’assenza di ogni portato di psicologismo e/o femminismo ante litteram in cui un ruolo tanto inusuale quanto originale, brioso, spiritoso e davvero bello tout court,  sarebbe facilmente potuto incorrere inseguito da “necessitate” di natura  provocatoria con pretesa di attrazione di ordine economico.

Come nel disegnare  e nel dipingere, si suggerisce  di costruire  linee e volumi  mediante l’osservazione e la riproduzione  degli spazi negativi, così Patrizia La Fonte ricava quanto di essenziale serve per tracciare i connotati di Maturina partendo dalla vita del Maestro di cui è ombra fedele: sa stare al suo posto, ma forse è l’unica persona in grado di svelare un ritratto autentico di Leonardo,  più quotidiano ed autentico rispetto ad altre possibili descrizioni. L’occhio di Maturina si fa “pittore”, strumento di narrazione e cronaca, come quando afferma in merito al Maestro che “…nel congetturare, stava assorto e  nel concepire si perdea”, oppure la sua lingua si eleva a critica d’arte discettando della Gioconda di cui coglie seppur esprimendosi ingenuamente il “sortilegio” e l’”incantamento” che la figura femminile ritratta opera, perché “guata” (guarda) chiunque la osservi e mai cessa di “guatarla”, benché ci si allontani dai suoi occhi.

Originale l’utilizzo in scena di altre opere di Leonardo sia per il dissolvimento dell’allusione all’essersi prestata come modella del Maestro (geniale e divertente  lo stupore nello scoprirsi, ad un certo punto, con braccia incrociate a mo’ di Monnalisa, subito sciolte come per allontanare il demonio) in modo da mantenere quell’aura di rigore caratterizzante la sua professione, sia  per un nuovo coinvolgimento degli spettatori invitati a prender parte ad un’asta in cui la stessa Maturina si reinventa provetta battitrice…riuscendo a  vendere con sua stessa somma sorpresa e soddisfazione la “Monna Vanna”!

Peccato che il cambio monetario tra mondi distanti più di cinquecento anni di storia e rivoluzioni dell’umanità non sia fattibile…ma Maturina ha da dire, dire, dire come un fiume in piena, una cornucopia di ricordi  e saggi motti che non si può proprio evitare di ascoltarla: ci conquista e ci vizia anche con la cucina di cui è esperta raccontandoci particolari dei capolavori leonardeschi come il Cenacolo in cui compare, in bella vista, un piatto di anguille con arance non trattenendosi dall’enunciarne la ricetta.

La magia del cibo che soprattutto alcuni film quali Chocolat, il Pranzo di Babette hanno saputo regalare visivamente nel corso degli anni e restituire con linguaggio cinematografico e fotografico qui è affidato alla bellezza della sola parola in un trionfo straordinario di sapori, odori, colori, profumi che sentiamo, vediamo, gustiamo, sublimati dalla rievocazione di  pietanze che un tempo appartenevano alle tavole del Bel Paese o da espressioni raffinate volte ad indicare le quantità prescritte per un dato piatto quali “spezie a sentimento” ed altre evidenzianti equipollenze tra attività intellettualmente distanti come la mera frittura e il “pingere a fresco” entrambe infatti “da far subito”per una corretta riuscita  …

Grazie a  Maturina che prende vita dai suoi ricordi, scopriamo un inedito Leonardo Da Vinci: il genio inarrivabile scende, ad esempio, dal piedistallo dell’artista intento a sbirciare il duro e laborioso compito della fantesca in cucina, così “attraente” per il risultato gradito al palato, da interrompere la scrittura delle sue carte con uno sbrigativo etc… sennò “…la minestra si fredda”.

L’arguzia e l’intelligenza del personaggio protagonista sono spiegabili,  in corso di spettacolo, con  quel grado di maggior cultura rispetto ad ogni altra  donna del suo tempo e  della sua condizione sociale, acquisito da Maturina con l’apprendimento del leggere, dello scrivere e del far di conto vivamente promosso da Leonardo Da Vinci che  riscontra l’estrema comodità di avere una fantesca istruita piuttosto che ignorante affidandole per iscritto commissioni, deleghe ed altre faccende.

Da non dimenticare è il vertice di commozione che Maturina raggiunge quando, a  luce soffusa, rammenta tra le varie massime del Maestro, un suo sogno di pura filantropia, in cui emerge la profonda humanitas e la pietas verso l’uomo, quella creatura complicata, studiata appassionatamente, sezionata in ogni minimo dettaglio, tanto amata follemente, quanto colpevole di distruggere il mondo in cui dimora sempre più da incivile invasore. Leonardo, in una sorta di profezia compiutasi come d’altronde, per intero,  le sue invenzioni celesti, terrestri e subacquee, auspicava che un giorno tutti gli uomini avrebbero potuto comunicare l’uno con l’altro superando le distanze senza bisogno di incontrarsi fisicamente.  Dal suo desiderio mosso da un’ardente sete insaziabile di cognizione, alla rete denominata nel XX secolo “Internet” il passo è così breve da far rabbrividire: lo stesso effetto si produce nell’ascoltare, sempre dalle labbra della fantesca, l’amara riflessione sull’impossibilità per il genere umano, malgrado scoperte e creazioni, di diventare migliore, in opere e in spirito, con il trascorrere del tempo.

Maturina, ci strega con quella lingua poetica, musicale ed aulica che per quanto distante ai nostri orecchi, giacché sconosciuta scolasticamente se non per le ostiche ed inespressive letture forzate, ad esempio della Divina Commedia o del Decameron, torna ad impadronirsi con familiarità dei discorsi e delle riflessioni compiuti in scena, risultando non solo pertinente, ma soprattutto godibilissima tanto da lasciare gli spettatori a  bocca aperta.

La fascinazione postuma  lascia il posto infatti alla amara considerazione logica del piccolo sforzo da compiersi in sede scolastica, bastante a rimuovere il  disamore per il nostro antico e degradato patrimonio culturale, se soltanto si operasse con criterio, lasciando almeno lo spazio di lettura esclusivamente a chi ben sa padroneggiar il “vetusto” idioma.

Maturina è maturata nel dietro le quinte di varie italiane e transalpine fucine  di invenzioni, dipinture, progetti di opere future e quando si congeda come un prototipo di governante alla  Mery Poppins, persiste in sala la voglia di continuare ad ascoltarla, di apprendere ancora dalla sua antologia di virtute e canoscenza, di abbeverarsi,senza posa, alla sua  inesauribile Fonte.

Mariangela Imbrenda


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