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Ecco, comincia così Conversazioni con zio Willie (Adelphi) un libro che ho preso soprattutto per fedeltà a uno degli scrittori a cui più tengo.
Pensavo fosse più o meno una biografia scritta dal nipote Robin (nipote ma anche discreto scrittore, autore tra l'altro de Il servo, il testo da cui Joseph Losey trasse un memorabile film con Dirk Borgade).
Una biografia, o qualcosa del genere, dedicata a uno degli autori più (meritatamente) fortunati del nostro Novecento. E invece non mi vado a imbattere fin dal terzo rigo in quella parola, malinconico?
E' così: Willie, nel ricordo di Robin, è ormai un fragile vecchietto, con la faccia solcata da una rete di rughe e una balbuzie sempre più accentuata. Un'anima persa a cui non bastano nè la fama nè una superlativa ricchezza che gli permette di vivere in una lussuosa villa a Cap Ferrat.
Willie è semplicemente un uomo disorientato dal presente e timoroso del futuro, che cerca qualche conforto nel passato. Un uomo, soprattutto, che ha paura di morire.
Sfortunatamente, il solo beneficio che talento e successo non avevano dato a Willie era la felicità.
Pranzava su piatti di argento, William Somerset Maugham, ma tutto questo contava poco o niente.
Sei il più famoso scrittore vivente. Sarà pur qualcosa, provava a confortarlo Robin.
E lui, tetro: Vorrei non aver mai scritto una parola.
Che sorpresa. Tante volte mi sono imbattuto nel male di vivere nei libri. Assai raramente - e certo non in autori quale Maugham - in qualcosa spinto fino a mettere in discussione anche il senso della scrittura e la sua possibilità di salvezza. O almeno di consolazione.
PS: il libro è comunque pieno di sulfureo humour britannico - e questo sì che me l'aspettavo. Il Maugham di battute così:
Alla mia età capita che amici e conoscenti ti muoiono attorno come mosche. Ma forse c'è il suo lato buono. Diminuiscono i rischi di querele.
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