Maurizio Barbarisi: racconti

Da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

Il viaggio a Venezia

Per l’occasione aveva organizzato un viaggetto di tre giorni a Venezia. Aveva dovuto inventarsi con la moglie un aggiornamento professionale ma ne era valsa la pena perché la sua Lisa meritava proprio quella vacanza. Erano oramai cinque anni che stavano insieme. Si vedevano spesso di corsa, in paesini sempre diversi a mezza strada tra la regione di lui e quella di lei: regalarsi quindi, ora, in occasione del loro anniversario, più tempo per starsene tranquilli senza l’assillo del tempo, gli era parsa una splendida idea. La loro relazione era iniziata in sordina, in modo distratto, più per acquietare l’urgenza dei sensi che per una reale necessità di evasione; con l’andare degli anni era divenuto però un rapporto intenso, maturato con il crescere della fiducia reciproca oltre che della comprensione e dell’intesa fisica. Adesso era qualcosa di profondo, di dolce, ma anche di liberatorio, nella sorpresa di quell’acquisita consapevolezza dello star davvero bene insieme.
Riuscirono così a trascorrere tre giorni romantici tra calle e campielli. Passeggiando per ponti antichi e strade imbiancate, sature di salmastro e di profumi speziati e di pane, si erano ritrovati l’uno stretto all’altra, in un’intimità rinnovata.
Quando, alla fine del terzo giorno, lei scese dal treno mentre lui proseguiva il suo viaggio, l’uomo si accorse che un velo pesante di tristezza gli stava avvolgendo il cuore. Avvertì per la prima volta al petto, uno strappo doloroso, soffocante, inaspettato. Prima che potesse dirle qualcosa per attenuare quello spaesamento, il treno era ripartito velocissimo in una campagna che andava addormentandosi sempre più nel crepuscolo tinto di rosa, mentre qua e là, nel verde cupo, prendevano vita le luci colorate delle case. Prese il telefonino e le scrisse un sms:

Grazie Lisa per quello che hai saputo darmi in questi cinque anni indimenticabili: questa mattina non avrei più smesso di far l’amore con te.

Si sforzò di non rattristarsi. Del resto non era stato quello il senso di quei tre giorni stupendi. Ma non era riuscito a evitare di sprofondare in uno sconforto senza fondo cui non era abituato, tanto che la signorina bionda un po’ grassoccia, che gli era apparsa innanzi come un folletto, gli chiese diverse volte cosa desiderava. Realizzò solo dopo qualche attimo che era la ragazza del carrellino con gli snack. Lui disse di sì, a caso, a un paio di domande che la biondina gli fece, proprio mentre il cellulare lo avvisava che era arrivato un nuovo messaggio. Controllò con impazienza, ma rimase deluso nel costatare che non era la risposta di Lisa, bensì solo un messaggio della moglie. Alzò le spalle, insofferente, lanciando il telefonino sul sedile accanto, indispettito. Quindi prese dalle mani della signorina il bicchiere, avvertendo l’odore acre del succo di ananas. Lo posò disgustato, davanti a sé, per poi coprirlo con il depliant di un prontopizza. Gli venne freddo e s’alzò il bavero della giacca. Fuori, dal finestrone, i contorni delle case stavano oramai sparendo, corrosi dal buio che sopravanzava. Sospirò.
Poi vide il telefonino accanto a sé. Lo raccolse e lesse il messaggio:

E Lisa chi cazzo è?

 

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La pietra del Gange

Alcuni anziani rishi ancora oggi narrano la leggenda medievale di Bhaskar Nita Narayan III, un ricco Principe indiano del Regno del Punjab, discendente diretto di Sri-Harsha, che si era innamorato, in età di prendere moglie, della bellissima quanto sfortunata Principessa Amshula Nara Kapoor. La ragazza, rimasta vittima del sortilegio di una donna malvagia, era stata trasformata in una comune pietra di fiume e abbandonata lungo la riva del Gange. Apparsa una notte in sogno al giovane, gli aveva chiesto aiuto promettendogli di diventare sua moglie se l’avesse liberata.
Il Principe, giunto alla foce del Gange, capì subito che l’impresa era disperata. Sulla riva del grande fiume vi erano, infatti, migliaia e migliaia di sassi tutti uguali sicché non sarebbe bastata una vita intera per trovare quello che teneva prigioniera la ragazza. Nonostante questo, con la dedizione cieca dell’amore, sicuro che qualora avesse incontrato la pietra di Amshula, l’avrebbe riconosciuta, il giovane si mise all’opera, risalendo pervicacemente il corso d’acqua. Passarono però numerosi anni senza che il Principe ritrovasse la pietra oggetto della sua bramosia. Alti dignitari del Regno, ma anche parenti e amici, preoccupati per le sorti del Principe fattosi uomo, accorsero al suo cospetto per dissuaderlo e aiutarlo. Il Principe, tuttavia, sdegnoso, rimandava tutti indietro, certo di essere ormai vicino a coronare il suo sogno. Trascorsero ancora altri anni e il padre di Bhaskar, Dhanesh, in punto di morte, non vedendo più tornare il figlio prediletto, convinto che anche lui fosse stato colpito da un qualche maleficio, decise di diseredarlo, nella necessità di dare continuità al suo Regno. Il Principe, saputo di quanto accadeva, non si scoraggiò. Avrebbe fatto vedere a tutti che non era impazzito e, ancorché vecchio, sarebbe tornato trionfante nella capitale, con a fianco la sua splendida sposa per reclamare, anche con le armi se fosse stato necessario, quel trono che gli spettava per diritto di sangue.
Una notte, mentre i monsoni stavano spazzando con violenza la zona, prese in mano una pietra che subito sentì calda al tatto. Non c’era dubbio: era la sua Principessa. Baciò l’adorato sasso, lo accarezzò, lo coccolò, gli disse dolci parole d’amore, ma non successe nulla. Rifletté sul da farsi e poi gli venne in mente di essere accanto al Gange che tutto purifica e tutto fa rinascere. Così non ci pensò un attimo e scagliò la pietra lontano da sè, tra i gorghi limacciosi del fiume: subito si fece giorno, i monsoni si acquetarono e il sacro fiume smise di scorrere. Nel punto in cui il sasso era affondato, l’acqua cominciò a ribollire e dalle onde immobili sorse una ragazza bellissima:
«Grazie o mio Principe, per avermi liberata. La tua totale dedizione in tutto questo tempo mi ha scaldato il cuore» disse con voce melodiosa Amshula sorridendo. «Tu mi hai restituito a nuova vita e ti porterò sempre dentro di me. Sono trascorsi, però, giusto cent’anni dal giorno di quel terribile maleficio e oramai è troppo tardi. Mi dispiace mio adorato, non potrò più essere la tua sposa.»
Così la ragazza si trasformò in un enorme e fiammeggiante drago color vermiglio e divorò il Principe.

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Punto e virgola

Era conosciuto da tutti come Luca Lagonegro. Uso l’imperfetto perché di lui non si è saputo poi più nulla; dopo quel giorno d’inverno, intendo dire, in cui uscì dal bar del Cinghiale, a Lughi, senza farvi più ritorno. Ma andiamo per ordine.
Luca era ancor più noto in paese con il soprannome di ‘Punto e Virgola’ per quella sua camminata un po’ bislacca per la quale prima si impuntava con la gamba rigida sinistra e poi cedeva improvvisamente con quella destra, quasi dovesse rovinare a terra da quel lato, finendo con il disegnare un’andatura armonica da nave in tempesta o, appunto, come tutti pensavano, da punto e virgola. Nessuno seppe mai se lui fosse o meno a conoscenza che lo chiamavano in quella maniera, ma certamente non lo aveva mai dato a a vedere. Aveva sempre il sorriso sulle labbra e un carattere mite che aveva conquistato il cuore dei compaesani. Forse molto aveva contribuito proprio quel suo modo di procedere sgangherato e buffo, dovuto a una poliomelite contratta all’età di tre anni, e quella sua aria di volersene sempre scusare a ogni passo. Sta di fatto che il suo studio da commercialista andava a gonfie vele. Aveva una parola buona per tutti, sia per quelli che non potevano pagare e chiedevano una dilazione, sia per quelli che i soldi invece ce li avevano e non volevano pagare troppe tasse.
E così arriviamo a quel 17 dicembre di circa tre anni fa. Il bar era pieno, in gran parte di amici, ma anche di forestieri venuti apposta per la Fiera del Bove nero. Lui ad un certo punto, alzandosi in piedi e puntandosi con un braccio al tavolo, aveva detto ad alta voce:
«Ho fatto, proprio ieri, quarant’anni di lavoro ed è il momento di andarmene in pensione.» Lo disse soddisfatto, alzando il boccale di birra a mo’ di saluto generale. Ma lo disse, come al solito, sorridendo tanto che molti non lo presero sul serio e continuarono a guardare la tv o a giocare a tressette. «E ora…» disse a voce ancora più alta «… passerò per quella porta, andandomene via dritto come un fuso: e non mi vedrete mai più.»
L’idea che “Punto e Virgola” se ne potesse andare via ‘dritto come un fuso’ fece sbellicare gli astanti dalle risate. Luca però non si scompose. Posò il boccale, si aggiustò la cravatta sul colletto inamidato che non mancava mai di ingentilire l’immancabile completo gessato e, senza dondolare né a sinistra, né a destra, camminando come una persona normale, prese la porta e se ne uscì, facendo rimanere attoniti gli astanti che per quarant’anni e forse più, lo avevano ritenuto uno storpio.
Dopo qualche settimana si scoprì anche che c’erano diversi ammanchi nelle casse delle società da lui gestite; si apprese inoltre che Luca Lagonegro si chiamava in realtà Paolo, Paolo Blažetić o Blažotevic o qualcosa del genere e che non era nato neppure a Lughi, ma forse in Croazia o in Dalmazia. Insomma ci si accorse che di lui si sapeva ben poco. Anche se per tutti rimase sempre ‘Punto e Virgola’.

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Davanti al porto

I due vecchietti erano seduti su di un muretto di sassi e cemento, in un punto della passeggiata, in cui si vedeva bene il porto e l’andirivieni delle imbarcazioni. Il sole filtrava abbondante tra le foglie di jacaranda.
«Lo sai, Parodi» disse, all’improvviso, quello con il cappello e il bastone d’osso su cui si agitavano due mani bianche e nervose. «È morto Giobatta.»
«Chi?» fece l’altro volgendosi appena, rassettandosi la sciarpa sul collo raggrinzito. «Il figlio di Teresa?»
«Macché il figlio di Teresa!» disse spazientito. «Quello è Pierino. Giobatta, è ‘Giobattin’… quello che aveva il negozio di ciabattino in via del Poggio: gli mancava un tochettin d’orecchio… non ti ricordi?» e tenne per aria l’indice e il pollice distanziati di un centimetro circa, per quanto riuscì solo a disegnare una sorta di uncino anchilosato.
«Ah, quel Giobatta!» fece Parodi rincalzandosi gli occhiali che erano già al loro posto.
«Già, quel Giobatta! Che ci vuole!» E tra i due calò di nuovo il silenzio. Nel porticciolo, intanto, stava entrando lentamente un gozzo, bianco e blu, con la scritta ‘Anita’ su una fiancata.
«E comunque è morto anche Pierino, se è per questo» fece l’uomo con il cappello.
«Eh sì, è morto anche lui» gli fece eco Parodi con un malcelato sorriso di soddisfazione. L’altro estrasse dalla tasca dei pantaloni un grosso fazzoletto tutto spiegazzato dentro il quale soffiò rumorosamente il naso. Lo ripose sul ginocchio per farlo asciugare:
«Certo che quando potevamo sederci ai tavoli del bar qui di fronte, senza doverci prendere tutta quest’umidità dal muro, si stava meglio.»
«Oh sì, che si stava meglio. Se Pinin non avesse pensato bene di chiuderlo…»
«Eh sì, è andato in pensione ‘sto belinun invece di starsene lì a far palanche… e… e dopo pochi giorni è morto. Ben gli sta.»
«Sì, sì, è morto pure lui ed era pure più giovane di noi» ribadì Parodi non dimenticandosi del suo sorrisetto sbilenco.
Il gozzo nel frattempo aveva attraccato al molo. Un uomo sulla cinquantina, vestito di blu e con un berretto di lana grigio calcato in testa, stava armeggiando attorno a una piccola bitta.
«E Gigettu? L’hai più visto Gigettu? Non sarà mica morto anche lui?»
«No no, l’ho visto ieri con sa moggè che faceva la spesa al discount…» rispose Parodi inarcando le sopracciglia come se lo avesse appena intravisto.
«Perché, a pensarci bene, anche lui è in là con gli anni» osservò l’uomo con il cappello dondolando la mano ossuta nel vuoto.
«Eh sì sì, anche lui.»
«Comunque anche la moglie non ha una bella cera.»
«Lo sai che hai ragione? Me lo chiedevo appena l’ho vista.»
«Deve stare attenta. Di questi tempi.»
Il pescatore che era rimasto sulla barca ora allungava a quello sul molo alcune cassette dove luccicavano pagelli e saraghi ancora vivi.
«Senti…» disse Parodi, dopo un po’, aggiustandosi la sciarpa, fin quasi sotto il mento. «Non è che da qualche tempo a questa parte parliamo sempre delle stesse cose, vero?»
«Ma che dici, Parodi. Non siamo mica vecchi rimbambiti, noi. E poi mi piace parlare degli amici, mi fa sentir meglio» fece alzando e abbassando il bastone che sbatté sulle pietre lucide come una mazza a sottolineare la solennità di quanto aveva appena detto.
I gabbiani intanto stavano lasciando uno dopo l’altro la spiaggia per volare verso il sole che si alzava sempre di più sulla linea dell’orizzonte.
«Soprattutto se muoiono prima di noi, vero?» chiese Parodi.
«Ben detto, mio caro amico, ben detto.»

 

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Il clochard

Stava aspettando ormai sul marciapiede da dieci minuti. L’amico gli aveva detto per telefono che sarebbe passato a prenderlo, ma evidentemente il traffico, a quell’ora, era anche peggiore di come sembrava.
Abhablé, abhablé” continuava a sentir dire da dietro le spalle come un mantra: era un clochard, accovacciato in modo innaturale alla spalliera del ponte, un sacco sporco trascinato dal vento. La sua carnagione era bruna, denti radi e scuri in bocca, il corpo dondolante in avanti e indietro quasi fosse un metronomo. “Abhablé, abhablé, abhablé” biascicava.
Dante, che già era infastidito dal dover perdere tutto quel tempo, si girò sbottando verso il barbone:
«Si può sapere cosa sta dicendo?» e avvicinandosi un poco. «Sono web marketing top manager di una startup company internazionale che fattura milioni di euro all’anno. Non lo capisce che è tutto sbagliato, quello che fa?» per un attimo l’uomo accovacciato per terra si arrestò dall’eseguire il suo movimento ossessivo poi alzò la mano nella direzione del passante per chiedergli l’elemosina. «Innanzitutto non si capisce il messaggio che lei sta inviando. Cos’è ‘sto “amamé, acatè“… cosa vuol dire? Lei veicola una richiesta equivoca e non congrua che le disorienta il target. Se allunga il palmo della mano in quel modo potrebbe solo chiedere aiuto o indicare qualcosa o, per quel che ne so io, dar pure da mangiare ai piccioni. E poi questo cappello floscio qui davanti a lei, cosa mi rappresenta? Sembra che le sia appena caduto dalla testa: deve assolvere invece al precipuo scopo di costituire in modo chiaro e preciso una slot di scambio tra utenza e committenza: deve poter stare dritto, aperto, essere invitante come un abbraccio liberatorio. Lei così mi azzera il tasso di conversione.» Si cavò il suo cappello, rigido e capiente, ci buttò dentro dieci euro e lo buttò davanti al clochard, assestando un calcio all’altro, ancora vuoto. «Ecco, questo è quello che fa per lei. E ci devono sempre essere dentro dei soldi: la gente deve capire a cosa serve questo contenitore, deve poterlo vedere il danaro e sentirsi in colpa per non volerglielo dare, perché altri, come loro, lo hanno fatto. E poi via questo aspetto sorridente, di riconoscenza, di commiserevole rinuncia. Lei è un disastro! Lei è un barbone, per dio, cosa avrà mai da ridere! Non sta aspettando che la facciano santo, deve mangiare… Deve sembrare macilento, sofferente, martirizzato dalla sfortuna e dalla cattiva salute. Guardi, faccia così, stia zitto, per favore…» e fece un passo verso il vicino cassonetto della spazzatura da dietro il quale sfilò una scatola di cartone da cui staccò il fondo; con un pennarello rosso, sfilato dalla tasca, scrisse: “Sono pazzo di vita, ma non posso urlarlo perché sono muto” e glielo mise davanti. «Sicuramente con questo decuplicherà gli introiti a parità di budget nell’unità di tempo data. Basti che taccia, però, per cortesia.»
In quel mentre un colpo di clacson richiamò l’attenzione di Dante sulla strada. Era il suo amico. L’uomo mise il tappino al pennarello e lo ripose in tasca; allontanandosi dal clochard gli disse: «Mi raccomando, tenga ben in vista il cartello e assuma un’espressione contrita, meglio se dolente… e soprattutto resti muto, che mi spaventa la clientela!!!» e salì su una Mercedes sotto lo sguardo stralunato dell’uomo. Una signora, nel frattempo, si era appena chinata verso il cappello, a terra, facendovi scivolare cinque euro. Il barbone la ringraziò sorridendo e poi, riprendendo a muoversi come un metronomo, biascicò: ”Abhablé, abhablé”.

 

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La cascina di Malvino

Malvino aveva comprato da qualche mese quell’antica cascina ed era già riuscito a restaurarne buona parte. Il giardino era ancora simile a una giungla, ma avrebbe atteso la primavera per il lavoro più impegnativo; l’annesso fienile era invece del tutto impraticabile né sapeva che destinazione darne. I precedenti proprietari lo avevano usato prima come cantina e poi come legnaia. Insomma, ci avrebbe pensato su. Erano altre per ora le urgenze. Certo, il restauro lo affaticava molto, ma l’uomo era ugualmente soddisfatto: aveva sempre voluto ritirarsi in campagna, una volta in pensione, e il prezzo che gli avevano fatto per il corpo centrale, l’ampio giardino e il fienile, era stato davvero buono tanto da sembrargli un affare.
‘È costato poco perché ci sono i fantasmi’ gli avevano detto, malevoli, i vicini. ‘T’hanno buggerato’.
Ma Malvino ai fantasmi non credeva. Aveva paura solo dei vivi. Questa convinzione però non l’aiutò a dormire. Nel silenzio della campagna si sentivano, infatti, molto bene rumori indefinibili, che avrebbe definito sospetti e inquietanti. Una notte, non potendone più, decise di mettersi sotto la quercia davanti a casa e attendere, nascosto nell’erba alta, il vicino, giusto per farlo pentire per quello stupido scherzo. Si accorse però ben presto che il trambusto era concentrato in una parte sola della casa e proveniva più esattamente da dentro il fienile. Quella notte stessa entrò circospetto con torcia e randello, ma non riuscì a vedere niente: c’era troppa roba là dentro e mancava la luce elettrica. Decise che se erano topi li avrebbe fatti sloggiare con le buone o le cattive. La mattina seguente tirò fuori quanto accumulato da anni in quel posto. Assi, cassette, tini, legna, mobili sfasciati. Ciò che ritenne di non poter riutilizzare lo bruciò. Il locale, alla fine, con molta fatica, fu sgombro, anche dai topi. Quella sera si addormentò tranquillo, anche se a notte fonda fu svegliato di nuovo dagli stessi rumori. Sì, c’era indubbiamente qualcuno o qualcosa lì dentro, anche perché il grosso lucchetto che serrava ora la porta era ancora ben chiuso. L’uomo non si perse d’animo. Il giorno dopo installò una webcam in una spaccatura del muro del fienile, appena sopra la porta. Collegò un sensore di movimento e un microfono. Trascorse un’altra notte insonne, ma gongolava nel letto perché avrebbe scoperto ben presto di che mistero si trattasse. L’indomani, pieno di aspettative, accese il computer. Restò molto deluso però nel constatare che non era stato registrato nulla. Mandò avanti veloce il video e lo schermo rimase per tutto il tempo scuro. Si sentivano solo rumori, quelli sì, sotto forma di fruscii, piccoli crepitii, schiocchi, ma nient’altro. Stava per spegnere il pc quando di colpo lo schermo s’illuminò. Sobbalzò sulla sedia. Vide che nella parte alta dei muri del fienile, tutt’attorno, si erano accese nello stesso istante decine e decine di torce di fuoco a illuminare, a giorno, il locale in una scena da tregenda. ‘Ma cos’è?’ si chiese a voce alta.
«Io lo so!» si sentì dire. Malvino si girò spaventato. «Oh, mi scusi. Sono don Remo, il parroco del paese. La porta era aperta e… ma non volevo spaventarla.» Un giovane in abito talare, dal viso radioso, lo stava guardando sulla soglia. «Sono nuovo anch’io, sa? Sono arrivato in paese solo da qualche settimana. Non ho mai creduto a questa storia di fantasmi e ho fatto una ricerca negli archivi della Curia. Quello che vede nel video non è mai stato un fienile. È piuttosto una cappella del Cinquecento. E non è mai stata sconsacrata.»

Featured image, Edgar Degas, autoritratto.


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