Non si può non affermare che, in questo momento, lo scrittore e sceneggiatore Maurizio Braucci viva un felice e particolare momento del suo percorso nel cinema italiano. Basta anche guardarlo solo negli occhi, in fondo, e scovi proprio manifesta questa felicità. Decisamente. Noi diciamo che i film importanti del momento, insomma quelli più attuali poeticamente di verità e realismo, in sede di sceneggiatura portano la sua firma: Pasolini, scritto per Abel Ferrara, e Anime nere, scritto col regista Francesco Munzi e con il compianto sceneggiatore Fabrizio Ruggirello, sono le immediate credenziali del sacro momento, due film che stanno sottolineando, anche con partecipato clamore e discussione, la nuova stagione 2014-2015 del cinema italiano. Clamore e discussione che, al cinema italiano in fondo, non capitava proprio da tempo. Ma nell’immediato precedente il nome di Maurizio Braucci è legato anche ad altre due appassionanti ed importanti pellicole, Gomorra e Reality, firmate entrambe alla regia da Matteo Garrone. Come dire, siamo certamente immersi nella grammatica del miglior cinema italiano del momento, un cinema italiano capacissimo di fronteggiarsi anche con quello eccezionale delle grandi stagioni passate, quello naturalmente dei decenni cinquanta, sessanta e settanta.
Ma incontrare Maurizio Braucci, in definitiva, significa ricordare un altro bellissimo film, visto qualche tempo fa, L’intervallo, 2007, scritto da Braucci per la regia di Leonardo Di Costanzo, un film dalla resa decisamente sfortunata al botteghino, ma di una beltà estremamente assoluta. Un film certamente austero, rigoroso, spontaneo, autentico, anche un film deciso nelle nette e forti radici neorealiste, di queste linee ne subiamo ancora il fascino immenso. L’intervallo è un film che possiamo riassumere, semplicemente, in quella che è, per la giovane coppia protagonista, la loro giornata particolare. Particolare come può essere una realtà nel contesto quotidiano di una Gomorra.
Dice Maurizio Braucci: “per realizzare un film come L’intervallo abbiamo frequentato a Napoli quegli ambienti e quei terreni dove era evidente e vissuta proprio quella difficoltà di crescere dei giovani, una dimensione assoluta che poi diventa nutrimento per le basi della camorra”. Ci piace apparentare il film di Leonardo Di Costanzo a quello di Ettore Scola, Una giornata particolare, 1978, appunto proprio per i prosceni scelti, effettivamente uno l’opposto dell’altro. In L’intervallo la vita di coppia è negata dalla Gomorra, ne Una giornata particolare invece la coppia e la sua vita è negata dal regime dittatoriale di Benito Mussolini. Restiamo insomma, in entrambi i film, proprio dentro l’inferno. Non c’è dubbio, Maurizio Braucci trasuda di elementi e di esperienze che ne fanno senz’altro uno dei più autorevoli scrittori, continuamente ispirato dalla grande tradizione neorealista.
Nella sceneggiatura di Pasolini poi il trasporto neorealista è immediato, contestualmente immediato. Braucci stesso non nega dia ver contribuito affinché il risultato artistico, finanche storico e spettacolare del film rientrasse nei termini dell’aggettivo “onesto”. Quando abbiamo incontrato il regista Abel Ferrara, nell’estate scorsa, il film Pasolini non era ancora pronto. Ferrara lavorava agli ultimi ritocchi di montaggio, dunque non sapevamo ancora nulla della sua grammatica e della sua logistica. Con Braucci il discorso è diverso, il film su Pasolini lo abbiamo visto e decisamente ne abbiamo sposato sinceramente tutte le tesi. Nel film vediamo Pasolini stesso girare le scene di un film, poi rilasciare una intervista alla televisione francese dove gli viene chiesto (ed il film lo rimarca) se si sente più un regista o uno scrittore e Pasolini semplicemente risponde “nel passaporto c’è scritto Scrittore”. Sono dunque ben presenti nel film le due anime di Pasolini scrittore e regista cinematografico. Poi lo incontriamo a discutere la sceneggiatura di un nuovo film, quel Porno Teo Kolossal che Pasolini aveva intenzione di realizzare con Eduardo De Filippo e Ninetto Davoli, il film di Ferrara ne ipotizza anche la lavorazione con Ninetto Davoli nei panni che nell’originale dovevano essere quelli di De Filippo e Riccardo Scamarcio che entrava in quelli che dovevano essere del giovane Ninetto. Dunque trova spazio l’importante intervista di Furio Colombo che raccoglie le idee di Pasolini per pubblicarle, come ha fatto, sul giornale La Stampa di Torino, e dove Pasolini sembra suggerirgli pure un titolo, Siamo tutti in pericolo. Poi Ferrara si sofferma sui rapporti di Pasolini con gli affetti familiari, con gli amici, la madre Susanna, i cugini Graziella Chiarcossi e Nico Naldini e l’attrice Laura Betti, e sulla vita notturna e “depravata”. Infine vi sono stralci ed inquadrature del suo ultimo film, Salò o le centoventi giornate di Sodoma e la ricostruzione di alcuni passaggi del romanzo, Petrolio, importante ma purtroppo incompiuto. Nella logistica il film di Abel Ferrara lavora dunque in una sorta di sovrapposizione di tempo continua.
Dice Maurizio Braucci: “in qualche maniera è un metodo narrativo simile al modo con cui in pittura si utilizza la tecnica delle velature sovrapponendo strati di colore con tonalità diverse e giocando con le trasparenze per avere un risultato più intenso e brillante”. Continua ancora, Maurizio Braucci: “Il nostro lavoro di sceneggiatura non ha mai avuto il sapore di un’indagine ma bensì, piuttosto, di una inchiesta letteraria. Non ci interessava assolutamente mostrare chi ha ucciso Pasolini, volevamo raccontare semplicemente l’uomo, l’intellettuale, anche il suo rapporto con la vita”. Ed anche la scelta di voler raccontare proprio le ultime quarantotto ore di vita di Pasolini non sarà stato certamente casuale. Pensiamo che, sia Abel Ferrara che Maurizio Braucci, in sede di preparazione del film, condensando l’uomo e l’intellettuale Pier Paolo Pasolini in questo breve arco di tempo abbiano voluto in qualche maniera immaginare e rappresentare la somma di tutto il suo genio e di tutta la sua “sregolatezza”, se ci passate il termine moralistico, nel suo rapporto con la realtà. Sarà stato esatto il rapporto di Pasolini con la realtà? Noi pensiamo che il film di Ferrara (e l’idea di Braucci) in sostanza si può ridurre, ed in questo può restare la beltà e l’utilità del film, a questa intensa domanda. Diceva Pier Paolo Pasolini: “con la vita che faccio io pago un prezzo… Sono come uno che torna dall’inferno. Ma quando torno, se torno, ho visto davvero più cose, altre cose…”.
Che dire poi dell’altro capolavoro della stagione, Anime nere di Francesco Munzi? Dice Maurizio Braucci: “Munzi è un regista che ho amato sin dal suo primo film, Saimir. Poi con il suo secondo, Il resto della notte, Munzi mi ha definitivamente convinto. L’ho sempre ritenuto un regista molto vicino idealmente alle mie corde di narratore. Quindi era quasi naturale un nostro incontro. Ho avuto sempre netta questa percezione, in qualche maniera ci siamo come cercati. Sono quelle cose che avvengono perché le senti, le cerchi inconsciamente, anche se non le hai in fondo programmate e non ne hai, fino in fondo, coscienza. E’ un pò come è successo con Abel Ferrara”. Continua Maurizio Braucci: “la caratteristica di Munzi è un po’ quella di riscrivere il film mentre lo gira. E questa è una tradizione in fondo molto italiana. Si lascia guidare dalla realtà in cui vive mentre gira e questo è fondamentale in un cinema che fa della verità una delle ragioni dell’espressione”. In partenza c’era però il romanzo di Gioacchino Criaco, edito dalla Rubettino Editore. Dice Maurizio Braucci: “Anime Nere” racconta il conflitto tra una generazione di mafiosi, tra quelli che sono più moderni, insomma quelli coperti dall’etichetta di uomini d’affari, e quelli che invece sono rimasti al paese continuando a reputare importante il radicamento nel territorio d’origine. Il film di Munzi è basato su questa idea e la contempla nel conflitto, un conflitto che nel film diventa familiare perché i tre rappresentanti di questa faida sono anche carnali”. Braucci, non va dimenticato, è anche tra gli scrittori di Gomorra, il capolavoro di Matteo Garrone, una sceneggiatura nata dal libro di Roberto Saviano, un film che in America ha ricevuto le lodi di un maestro come Martin Scorsese. E va dato atto che, sia Garrone che Braucci, alle forti pressioni del mercato per rifare, in qualche maniera, delle nuove versioni del loro film più acclamato e premiato, appunto Gomorra, hanno invece optato per una cosa completamente diversa. Ricorda Maurizio Braucci che il regista Garrone era proprio invaso nel periodo di proposte simil-Gomorra che gli arrivavano persino dall’America. Proposte sempre ed esclusivamente di film d’azione, mafia, Al Capone, Petrosino. Dice Maurizio Braucci: “nessuno di noi si è lasciato però influenzare dal periodo, e nessuna storia di quel tipo ci ha più convinto. Ma restava ancora il combattimento se fare un’altra storia legata a quel mondo o invece cambiare completamente registro”. Nasce dentro questi contesti, con queste premesse, il film successivo di Matteo Garrone, Reality, dove regista e sceneggiatore abbandonano i lidi di Gomorra e approdano a quelli del Grande Fratello.
Dice Maurizio Braucci: “il tema dei reality televisivi ormai imperante ovunque ci sembrava un motivo forte, pertinente, inserito in maniera prepotente nel dibattito culturale, e lo abbiamo affrontato. Abbiamo in qualche maniera come interrogato un preciso momento storico, secondo gli schemi della grande commedia italiana degli anni sessanta, e quello attuale è dominato certamente dall’illusione del successo televisivo”. Reality è una commedia, anche una commedia che può andare davvero fiera del suo passato glorioso, quel passato che ha confermato nel mondo il grande cinema italiano nato dal movimento del neorealismo. Non c’è dubbio, e non vogliamo fare paragoni assurdi, ma con Reality siamo davvero entro le linee dei migliori film di Pietrangeli, Risi, Monicelli, Comencini, Scola, un film dove funziona davvero una sceneggiatura fatta e studiata in maniera rigorosa e scientifica. Con buona pace davvero di Maurizio Braucci, destinato a diventare senz’altro una delle migliori penne del nostro cinema.
Giovanni Berardi