Maurizio Gramegna: cosa vuol dire, oggi, resistere?

Da Narcyso

Maurizio Gramegna, CADUTI IN VOLO, puntoacapo 2009

“E’ nato come un racconto lungo e senza particolari intenti letterari. L’ho pensato come uno strumento per parlare ai giovani di resistenza senza retorica e per dire loro che siamo sempre noi a scegliere, anche se può voler dire sacrificare la nostra vita.”
Così Maurizio Gramegna mi presenta “Caduti in volo”, letto qui a Rovigno, come quasi tutti i libri di viaggio, terra lucente, in contrapposizione alle terre brumose dell’Oltrepò Pavese dove è ambientato, con precisione topografica – mappa della memoria e dell’esperienza alla mano – questo racconto di resistenza.
Resistenza partigiana, fino al sacrificio – ma in modi assai diversi – dei componenti di un’intera famiglia: il figlio Tino, l’amico Carlo, praticamente due fratelli; i genitori; una sorella: Agnese. Ognuno votato a una resistenza al male, sia perché, in certi momenti della Storia, il male si fa sfacciato, toglie ogni maschera e ognuno può distinguere i suoi attributi, sia perché qualcuno ci ha insegnato a riconoscerlo in nome di un principio molto semplice: non uccidere, e se proprio devi farlo per istinto di sopravvivenza, dai sepoltura, piangi, prega, consola, chiedi perdono.
In questo racconto, così, risaltano in contrapposizione due omicidi: quello inevitabile, del soldato tedesco alla mitragliatrice, e quello, per tradimento, dei due ragazzi arruolatisi nella resistenza partigiana, dapprima per evitare la leva obbligatoria, poi per fare qualcosa, per non rendersi complici del disastro storico e culturale che portò il mondo intero sul baratro del disastro.
Omicidi in contrapposizione, proprio perché anche al soldato tedesco viene data la sepoltura, almeno memoriale, che si deve alle vittime, a rischio della vita; infatti Tino riesce a sottrarre al cadavere del nemico, il suo elmetto bucato e il fazzoletto imbevuto di sangue, mentre i corpi dei partigiani invece, vengono lasciati per giorni nel luogo della fucilazione, così come si è fatto per i delitti politici fin dai tempi di Antigone – e qui, per simbologia non voluta, evidentemente, sono due fratelli ad essere insepolti; e quale ruolo bellissimo, certo, fino al finale che non si può rivelare, spetta alla sorella di Tino, Agnese! -
Il libro, in effetti, non si conclude con la sepoltura, infine concessa, dei corpi dei due partigiani – una pagina bellissima, altro che non letteratura, caro Maurizio! Di pietà umana, rito collettivo di consolazione e dolore a cui tutta la comunità partecipa perché quei due ragazzi erano figl di tutti, fratelli di tutti. – Qui lo stile di Maurizio Gramegna, asciutto, essenziale e doloroso, con tratti che ricordano una scena di pietà, di deposizione cristiana, o uno dei migliori momenti corali di opera risorgimentale, si mette in competizione con uno degli ultimi capitoli del racconto, quello in cui è descritta l’agonia della sorella Agnese, anche lei, in modo diverso, impegnata in un esercizio di resistenza, di dolore e di sacrificio senza il quale nessun perdono potrebbe essere concesso, nessuna degna sepoltura alle vittime e ai carnefici.
Non odio gli uomini, dice il comandante della brigata che sarà chiamata Tino, in suo onore, ma le azioni che a volte essi compiono.
Questa fiducia nel genere umano forse si può capire soprattutto in quelle fasi della Storia dove i caratteri, per forza di cose, sono costretti a stagliarsi come potenti altorilievi, sia nel bene che nel male: come le lotte di antichi centauri e amazzoni sui frontoni dei templi greci. Sono figure grandi nella loro semplicità e umiltà, questi personaggi: parlano poco e compiono grandi azioni, sopportano le beffe del destino che li schiaccia eppure li addita a modelli, a comportamenti esemplari. Realizza, insomma, il senso dello stare ed essere stati nella breve stagione della fioritura di una fragile rosa, sospesi tra l’ineluttabilità del male e la necessità del bene e di aver scelto da che parte stare.
Certo, questo può avvenire nell’unico modo che, anche per deformazione professionale e per esperienze di vita, mi è dato di capire. E cioè attraverso il senso del nostro stare al mondo a contatto con le persone che più hanno contato nella nostra vita e più ci hanno accompagnate nel difficile percorso del “non perdersi”.
Il racconto, insomma, si basa sulla descrizione di relazioni educative forti, fortissime, ben radicate in un sostrato di civiltà contadina e di relazioni parentali, di rapporti con il territorio, col senso di appartenenza a una cultura, a un’intera civiltà. “Valori”, si direbbe oggi, col rischio di fraintendersi su un’idea di conservatorismo. Qui, in realtà, nulla si conserva, anzi, tutto si perde. Si perdono i riti, gli affetti, gli sguardi, gli odori, i ricordi. Si disperde una mappa – quella di queste campagne, e colline, greti – che Tino e Carlo conoscono come le loro tasche, ed evidentemente lo stesso Gramegna, studioso di storia locale e poeta fortemente legato al suo territorio di appartenenza. Si perde questo incredibile silenzio dentro il quale sono immerse le imboscate dei partigiani, le nebbie e i fanghi che padre Po esala come un antico fiato, e colline verdeggianti di castagni, i cieli bassi, l’incedere a piedi, per chilometri, il ricordo delle ciliege rubate da ragazzini, i nomi delle strade e delle contrade e delle case e delle cose.
Così, Maurizio Gramegna, scrivendo questa storia, è come se ricordasse. Il suo atto politico consiste proprio nel consegnare questi ricordi, non permettendo al tempo di sfregiare i volti di quegli altorilievi scolpiti per necessità civile, per celebrare la necessità del sacrificio.
Cosa vuol dire, oggi, sacrificare, sacrificarsi? Cosa vuol dire realizzare, realizzarsi? Cosa vuol dire, oggi, resistenza? Resistere chi, a che cosa? Come riconoscere il male proprio oggi che esso, in tempo di benessere materiale, è ammantato come il più sfacciato dei ruffiani? Cosa vuol dire, oggi, perdono? Nel racconto di Maurizio Gramegna tutti sanno bene che cosa vuol dire sacrificio, realizzazione, resistenza, perdono, sangue. Lo sanno perché queste persone sono costrette a vivere l’esperienza della scelta e del rischio, sapendo che, alla fine, questo non potrà giustificare gli esiti di una personale felicità ma “la riconciliazione dell’uomo con l’uomo, dei padri con i figli, dei fratelli coi fratelli”.

Sebastiano Aglieco

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