Due anni or sono, volendo compiere un iperbolico gesto di riscatto, un Dinetto al cubo, ho pensato di comprare una piccola chiudenda di ulivi nella campagna di Casarano, Puglia salentina. Erano anni e anni che andavo a visitare quegli ulivi, sessanta piante vecchie di mezzo millennio. Ouegli ulivi avevano trasceso la loro condizione di essenze arboree, si erano fatti templi monumentali della dea Terra, megaliti colmi di insondabile, arcano mistero aichitettonico; le loro ossute rame stendevano chiome che ombreggiavano per decine di metri, nei recessi dei loro tronchi vivevano famiglie di conigli selvatici, crescevano piante floreali. Ed erano ancora fruttiferi, perché ben potati e puliti e nutriti. Poi, non più. Poi, morto il contadino che ci era nato in quella chiudenda, partorito dalla figlia dei figli dei figli dei figli di chi l’aveva piantata, gli eredi lasciarono andare, occupati in altre faccende un po’ meno sacrali. Volevo comprare quella chiudenda perché non andasse persa tutta quella bellezza, perché non fosse offeso il lavoro di decine di generazioni, perché il figlio di Dinetto potesse onorare suo padre, nobile operaio, con un gesto di aristocratica gratuità. Il prezzo era abbordabile. E non ne ho fatto niente. Niente di niente perché ho cercato invano chi avesse poi coltivato quegli ulivi. Avrei dato tutto il raccolto in cambio, avrei preteso solo una bottiglia del loro olio. Quella sì, avrei ripreso a tenerla sotto chiave. Ma a lavorare sessanta ulivi non c’e la morale, come si dice. In Salento la morale olearia comincia a farsi vedere quando gli ulivi sono cinquecento, seicento, e tutti insieme per non farsi mangiare dai costi del gasolio. Le olive non valgono più niente per chi le cala giù: da quelle parti almeno, i soldi con l’olio li fanno i grandi manifatturieri, i raffinatori e i mescolatori e i distributori. E quelli del marketing, naturalmente. I nuovi tempi. La madre di Dinetto, mia nonna Anita, la matriarca che mi ha cresciuto nella bellezza e nella saggezza, non ha usato molte parole per adempiere a questa titanica missione; del resto non aveva che un vocabolario molto limitato, quello dei contadini illetterati, i cafoni nati nel XIX secolo. Ma finché è vissuta e finché ha avuto un barlume di speranza che la ascoltassi, mi ha ripetuto l’esortazione a compiere le tre cose, le semplici tre cose, che secondo il suo animo giustificano la vita di un uomo e la sua dignità. Zunzere i copi, colmare un tetto, fare una casa, piare ar mondo en fìgio, fare un figlio, piantar en pé d’ulivo, mettere a dimora una pianta d’ulivo. Non occorreva altro secondo l’Anita per rendere I’esistenza di un uomo partecipe dell’eternità della vita terrena, della vita che non finisce mai perché costruisce altra vita. Al suo tempo, al tempo dell’olio chiuso a chiave, al tempo in cui gli ulivi cominciavano a dare frutti significativi venti, venticinque anni dopo la loro messa a dimora e continuavano a farlo per secoli e secoli – oggi ci sono coltivar che producono dopo cinque anni – un uomo non piantava un ulivo per sé, ma per quelli che sarebbero venuti dopo di lui, e suo marito, mio nonno Garibà, Garibaldi, ha piantato il suo ultimo ulivo l’anno prima della sua morte. Sua figlia Carla, che oggi ha 84 anni, a ogni Natale mi regala una bottiglia di olio di quell’ulivo. C’è un invito all’eternità in quella bottiglia, e c’è il rimprovero di non aver fatto nulla di buono nella mia vita, nemmeno saper cavare dalla Terra abbastanza da condire il mio pane. Pane che compro, perché non so fare nemmeno quello. L’antico gesto di Dinetto, la cacciata della chiave dall’armadio della cucina, ha innescato un processo di ascesa sociale che mi ha portato a vette inimmaginabili anche ai suoi occhi straordinariamente speranzosi, e oggi appartengo a quel ceto privilegiato che può permettersi di comprare olio insipido e scadente a prezzi da capogiro solo perché la bottiglia ha una affascinante etichetta e è collocato nello scaffale dei prodotti fichi. Tanto valeva che lasciasse la chiave là dov’era sempre stata. (da Il Fatto Quotidiano, 7.10.2013)
Due anni or sono, volendo compiere un iperbolico gesto di riscatto, un Dinetto al cubo, ho pensato di comprare una piccola chiudenda di ulivi nella campagna di Casarano, Puglia salentina. Erano anni e anni che andavo a visitare quegli ulivi, sessanta piante vecchie di mezzo millennio. Ouegli ulivi avevano trasceso la loro condizione di essenze arboree, si erano fatti templi monumentali della dea Terra, megaliti colmi di insondabile, arcano mistero aichitettonico; le loro ossute rame stendevano chiome che ombreggiavano per decine di metri, nei recessi dei loro tronchi vivevano famiglie di conigli selvatici, crescevano piante floreali. Ed erano ancora fruttiferi, perché ben potati e puliti e nutriti. Poi, non più. Poi, morto il contadino che ci era nato in quella chiudenda, partorito dalla figlia dei figli dei figli dei figli di chi l’aveva piantata, gli eredi lasciarono andare, occupati in altre faccende un po’ meno sacrali. Volevo comprare quella chiudenda perché non andasse persa tutta quella bellezza, perché non fosse offeso il lavoro di decine di generazioni, perché il figlio di Dinetto potesse onorare suo padre, nobile operaio, con un gesto di aristocratica gratuità. Il prezzo era abbordabile. E non ne ho fatto niente. Niente di niente perché ho cercato invano chi avesse poi coltivato quegli ulivi. Avrei dato tutto il raccolto in cambio, avrei preteso solo una bottiglia del loro olio. Quella sì, avrei ripreso a tenerla sotto chiave. Ma a lavorare sessanta ulivi non c’e la morale, come si dice. In Salento la morale olearia comincia a farsi vedere quando gli ulivi sono cinquecento, seicento, e tutti insieme per non farsi mangiare dai costi del gasolio. Le olive non valgono più niente per chi le cala giù: da quelle parti almeno, i soldi con l’olio li fanno i grandi manifatturieri, i raffinatori e i mescolatori e i distributori. E quelli del marketing, naturalmente. I nuovi tempi. La madre di Dinetto, mia nonna Anita, la matriarca che mi ha cresciuto nella bellezza e nella saggezza, non ha usato molte parole per adempiere a questa titanica missione; del resto non aveva che un vocabolario molto limitato, quello dei contadini illetterati, i cafoni nati nel XIX secolo. Ma finché è vissuta e finché ha avuto un barlume di speranza che la ascoltassi, mi ha ripetuto l’esortazione a compiere le tre cose, le semplici tre cose, che secondo il suo animo giustificano la vita di un uomo e la sua dignità. Zunzere i copi, colmare un tetto, fare una casa, piare ar mondo en fìgio, fare un figlio, piantar en pé d’ulivo, mettere a dimora una pianta d’ulivo. Non occorreva altro secondo l’Anita per rendere I’esistenza di un uomo partecipe dell’eternità della vita terrena, della vita che non finisce mai perché costruisce altra vita. Al suo tempo, al tempo dell’olio chiuso a chiave, al tempo in cui gli ulivi cominciavano a dare frutti significativi venti, venticinque anni dopo la loro messa a dimora e continuavano a farlo per secoli e secoli – oggi ci sono coltivar che producono dopo cinque anni – un uomo non piantava un ulivo per sé, ma per quelli che sarebbero venuti dopo di lui, e suo marito, mio nonno Garibà, Garibaldi, ha piantato il suo ultimo ulivo l’anno prima della sua morte. Sua figlia Carla, che oggi ha 84 anni, a ogni Natale mi regala una bottiglia di olio di quell’ulivo. C’è un invito all’eternità in quella bottiglia, e c’è il rimprovero di non aver fatto nulla di buono nella mia vita, nemmeno saper cavare dalla Terra abbastanza da condire il mio pane. Pane che compro, perché non so fare nemmeno quello. L’antico gesto di Dinetto, la cacciata della chiave dall’armadio della cucina, ha innescato un processo di ascesa sociale che mi ha portato a vette inimmaginabili anche ai suoi occhi straordinariamente speranzosi, e oggi appartengo a quel ceto privilegiato che può permettersi di comprare olio insipido e scadente a prezzi da capogiro solo perché la bottiglia ha una affascinante etichetta e è collocato nello scaffale dei prodotti fichi. Tanto valeva che lasciasse la chiave là dov’era sempre stata. (da Il Fatto Quotidiano, 7.10.2013)
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