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Mauro Germani - Terra estrema (Interventi di Marco Ercolani e Fabio Botto) - L'arcolaio 2011
INella stanza cresceva l’ombra, il sonno come un addio. Lui ripeteva il dolore di quelle scale come fosse per sempre, come un gesto scampato al disastro di fuori. Lei aveva pochi minuti, oppure una vita intera, lo guardava e lo ricordava senza trattenerlo, con calma, nella vertigine chiusa di quello spazio segreto.
II
C’era stato un giuramento lì, un attimo assoluto.
C’era stato un amore incurabile, la luce tremante dei volti, la strada lontana. Un abbraccio senza mondo, vicino alla carie dei muri, dove era più facile perdere, non avere giorni, non avere nomi.
IIILei vendeva il suo corpo per essere infelice e poter dormire. Trovava sempre un sorriso, anche nella fame disperata, negli appuntamenti veloci. Chiedeva aiuto da quei cassetti aperti e confusi, da una foto ingiallita, da una borsetta dimenticata.
Per sé aveva qualche stagione, un albero che sorrideva, un po’ di neve, una rosa gialla, un piccolo ramo spezzato.
Per sé piangeva in silenzio.
IV
Lui era un poeta e le sue parole, le sue domande non uscivano da quella stanza.
A volte la notte gli rispondeva dicendo: “Verrà l’ora onnipotente, verrà come una ladra e sarà una bambina dai capelli bianchi. Ti riconoscerà e ti porterà con sé per sempre. Andrete lontano, andrete dove non c’è ritorno e la vostra solitudine sarà immensa e gloriosa …”.
V
“Ti mentirò sempre il male, l’urto delle moltitudini”, le diceva quando era bello non essere lì, sognare una casa lontana, un destino senza destino, una fiamma e un vento solo per loro.
Lei si perdeva e si ritrovava come in un’infanzia di terra e di nuvole, una meraviglia buona e solitaria, un patto raccontato dal cielo.
VI
Tutta la stanza era ferita, una domanda imperfetta che non pretendeva più nulla, una grazia sfiorita negli occhi.
Non poteva esserci salvezza nelle loro parole dilaniate, in quelle promesse informi e capovolte, in quella curva feroce del tempo.
VII
Qualcosa si preparava per finirli. Qualcosa come un urlo soffocato nelle pareti, una sentenza incisa nella carne, un allarme scappato da tutte le vie.
Così scendevano nell’imperdonabile resa, nel gorgo vuoto e maledetto, nella gola bruciata e senza parole. Così si allontanavano nel comando finale.
VIII
Il loro corpo fu l’ombra, la luce, il sogno, la ferita.
Furono gli anni dietro le finestre, il pane secco nella credenza, i millimetri di ogni febbre e di ogni bacio, la patria segreta delle lenzuola, ma anche le impronte senza riparo, l’alleanza sconfitta del mondo, un addio incessante.
Il loro corpo fu solo quella stanza, quella terra estrema.