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Max Blecher - Accadimenti nell'irrealtà immediata

Da Mauro54

   Max Blecher - Accadimenti nell'irrealtà immediata MAX BLECHER – ACCADIMENTI NELL’IRREALTA’ IMMEDIATA – KELLER EDITORE 2012
In questo romanzo di Max Blecher, autore rumeno morto a soli ventinove anni, nel 1938, per tubercolosi spinale, il protagonista è un giovane (“alto, magro, pallido, col collo sottile che fuoriusciva dal bavero troppo ampio del giubbotto. Le lunghe braccia penzolavano come degli animali appena scuoiati”), che conduce la propria vita ai margini del mondo, in una vertigine che è deliquio e progressivo allontanamento dalla realtà. Le sue ricorrenti crisi, come egli stesso le chiama, provocano in lui una perenne instabilità e divengono i sintomi evidenti di un’esistenza mancata, di un Io che, tendendo a liberarsi del mondo chiuso nelle sue incomprensibili leggi, si espone senza difesa all’abisso che gli si spalanca intorno.
Lo sguardo del giovane si rivela così sempre doppio perché si posa sulle cose e le trasfigura, ma al tempo stesso ne è trasfigurato, come in uno specchio deformante.
La dicotomia tra la complessa interiorità del protagonista e la realtà esterna modifica non solo ogni forma di percezione, ma anche il flusso delle pulsioni sessuali, che il giovane vive a frammenti, in uno stato che pare sospeso tra un incontrollato (ed incontrollabile) desiderio ed una fatalità senza scampo, quasi da incubo, caratterizzata da “un’aria di mistero e di amarezza”.
Nella scissione vissuta dal protagonista, l’atto sessuale rappresenta il tentativo di appropriarsi di una realtà altra per esistere, per essere davvero nel mondo, per sovvertire in qualche modo quella monotonia, quell’estranea perfezioneche nulla ha a che fare con il magma inquieto ed inquietante, straordinariamente vivo, che c’è in lui.
I rapporti con gli altri sono tutti contrassegnati dallo stupore e dallo spaesamento, conseguenza delle proiezioni psichiche che gettano in ciascuno luci ed ombre indelebili, quasi fossero le impronte, le tracce, le macchie di esistenze assurde che si dilatano nello sguardo, fino ad acquisire vita propria, ovvero quell’irrealtà immediata che cattura ed imprigiona il protagonista.
Si vedano le varie figure che ruotano  attorno all’io narrante: il medico “topesco”, Clara con il suo comportamento sensuale, Walter, con la sua strana luce e la sua giubba rossa, che lo coinvolgerà in un attonito rapporto orale, Edda con il suo profumo ineffabile e la sua precisa ambiguità di donna, “con i capelli ben pettinati, con gli occhi azzurro-viola, con un sorriso all’angolo della bocca”.
Gli impulsi del giovane sono irrimediabilmente segnati dalla malattia e dalla sconfitta, in una ricerca disperata di un senso ulteriore che non c’è e di una missione da compiere (come, ad esempio, nel brano in cui decide di sprofondare nel fango), sempre in balìa tra una latente aggressività ed il sogno di un’identità precisa, tra la volontà di possedere l’impossibile e un desiderio di quiete coincidente con la fine, l’autodistruzione e la morte.
Con questa sua opera, per la prima volta edita in Italia, Max Blecher (che Eugène Ionesco paragonò a Kafka) ci consegna una scrittura assai potente nella sua realtà visionaria, una costruzione d’ombre e di allucinazioni, di conflitti estremi e di dolori irrimediabili. Un’opera da leggere, che rientra a buon diritto in quel Novecento europeo segnato dalla crisi profonda dell’uomo smarrito e straniero nel mondo.
Mauro Germani
Quel giorno ero arrivato a piedi fino alla periferia della città, nel campo dove si tiene il mercato bovino.
Di fronte a me si stendeva il terreno abbandonato fradicio di pioggia come un’enorme pozza di fango. Il letame esalava un odore acido di urina. Il sole tramontava sopra un paesaggio sfilacciato d’oro e porpora. Davanti a me si stendeva in lontananza il fango tiepido e molle. Cos’altro avrebbe potuto riempirmi il cuore di gioia, se non questa massa autentica e sublime di sudiciume?
Sulle prime esitai. Dentro di me combattevano ancora con forze da gladiatori moribondi le ultime tracce di una certa educazione. In un istante, però, esse sprofondarono in una notte nera e opaca e non seppi più nulla di me.
Entrai nel fango prima con un piede, poi con l’altro. I miei scarponi affondarono piacevolmente nella materia molle, elastica e viscosa. Ero sorto adesso dal fango, tutt’uno con esso, come zampillato dalla terra.
Ora ero sicuro che persino gli alberi non erano altro che fango rappreso, fuoriuscito dalla crosta terrestre. Il loro colore lo testimoniava a sufficienza. Ma soltanto gli alberi? E le case, e gli uomini? Soprattutto gli uomini. Tutti gli uomini. Non si trattava, ovviamente, di nessuna stupida leggenda “polvere tu sei e in polvere tornerai!” Ciò era troppo vago, troppo astratto, troppo inconsistente di fronte al desolato terreno fangoso. Le persone e le cose erano saltate fuori giusto da questo misto di sterco e urina in cui io affondavo con concretissimi scarponi.
Inutilmente le persone si erano avvolte nella loro pelle bianca e vellutata e si erano vestiti in abiti di stoffa. Invano, invano… In loro giaceva implacabile, imperioso e primario il fango; il fango tiepido, denso e maleodorante. La noia e la stupidità con cui riempivano la loro vita lo dimostrava ampiamente.
Io stesso ero una creazione speciale del fango, un missionario da lui inviato in questo mondo. Sentivo bene in quei momenti in che modo il suo ricordo stesse per tornare e mi rammentai delle mie notti di tormenti febbrili e tenebrosi, quando il mio fango esistenziale si slanciava inutilmente e si sforzava per venir fuori. Allora chiudevo gli occhi e lui continuava a sobbollire nell’oscurità con gorgoglii incomprensibili…

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