Me, my selfie and die. La retrospettiva di Jeff Koons nello schermo di uno smartphone.

Creato il 06 febbraio 2015 da Thefreak @TheFreak_ITA

Acclamata già nel 2013 dalla redazione degli Oxford Dictionaries e poi nel 2014 da quella dello Zingarelli, la parola selfie è sicuramente il simbolo degli ultimi anni.

Se accompagnata da un tono volutamente teenegeriale tanto meglio, anche se il TOP -altra parola molto in voga- è, ormai, il selfie-stick.

Sono già vintage le foto scattate allo specchio solo un anno fa, e manca poco perché anche i primi piano macro -per chi abbia braccia meno lunghe dei due metri- siano per essere abbandonate perché questo strumentino si è imposto nella nostra vita, insieme ad una serie di altri escamotage per uscire bene in queste foto ego-centrate ( se non decisamente egocentriche) che sono l’antitesi della fotografia intesa come arte per quanto larga la sua definizione possa essere.

È talmente diffuso ed onnipresente il desiderio di immortalarsi che anche l’arte, quella vera, si è piegata a questo “bisogno” ed anche i musei più tradizionali hanno dovuto accettare che branchi di turisti si facciano fotografie con opere pregiatissime e rare alle loro spalle, che le opere d’arte siano diventate niente di più di un complemento di una foto od una superficie riflettente pari a quella del bagno di casa.

Qualche curatore ha semplicemente abbozzato, acconsentendo solo a che i cartelli che vietano di scattare foto fossero rimossi, altri, invece, hanno utilizzato questa moda come una politica di marketing gratuita creando spot appositi dove fotografarsi.

Infine, ci sono quelli che su questo desiderio maniacale di auto-immortalarsi hanno incentrato tutto il percorso dell’esposizione utilizzando le opere in mostra letteralmente come uno “specchietto per le allodole”, uno specchio per selfies, dovremmo dire.

Tra questi c’è sicuramente Bernard Blistène, curatore della retrospettiva che il Centre Pompidou di Parigi, dal 26 novembre 2014 al 27 aprile 2015, ha dedicato a Jeff Koons.

Vi assicuro che tutto l’impianto della mostra, titolo incluso, è un invito a fare selfie e tutti i visitatori lo accolgono, quale che sia la loro età, presunta serietà o qualsiasi altra cosa che possa impedire ad una persona adulta di scattare una foto di sé con un’opera d’arte alle spalle.

L’autore si presta facilmente, con le superfici specchiate che lo caratterizzano, a questo utilizzo decisamente pop ma che, a ben pensarci, è una naturale espansione del suo messaggio artistico e della sua stessa ideologia.

I concetti della riproducibilità, il sogno americano, la centralità dei media, la desiderabilità degli oggetti iconici, tutti i punti fermi attorno a cui ruota l’intero lavoro di Koons, dalla sua prima serie del 1966, Inflatables, fino al Balloon Dog che nel 2013 ha stabilito, con l’asta che ne ha fatto Christie’s, il record di prezzo per artista vivente, sono tutti condensati nel telefonino che stringiamo e nella foto che ci scattiamo davanti alle sue opere.

Il messaggio, quindi, non si perde nella sciatteria di una visita svolta con le spalle alle opere e gli occhi fissi sullo schermo, anzi, si moltiplica all’ennesima potenza.

Io stessa, nel rivedere il selfie in cui la mia immagine è riflessa in uno degli specchi della serie EasyFun, con alle spalle gli altri personaggi, tra cui Popeye, Titti, Dumbo, Ciuchino, in esemplari tridimensionali cromati, mi sono davvero resa conto che forse il tema dell’intera mostra, e del lavoro di Koons è sostanzialmente uno: quanto sia buffa questa nostra realtà.

Ebbene, signori, un selfie può davvero canalizzare un messaggio.

Davvero tutta questa moderna interattività tra esposizione e visitatore giudicata da molti (me inclusa) come un attentato diretto alla sacralità dell’arte, se guidata e soprattutto contestualizzata, può svolgere, a quanto pare, un ruolo importante nel tentativo di comunicazione dell’incomunicabile che l’arte svolge.

C’è un solo grande limite.

L’arte non è solo immagine, ma anche materia, irriproducibile con qualsiasi mezzo fotografico.

La porcellana ed i gessi, a differenza delle superfici riflettenti e della gomma delle prime due fasi della mostra, necessitano infatti di essere guardati nudo oculo, senza schermi, filtri, obiettivi, per poterne assaporare la porosità, e la perfezione materiale.

Se anche anche le stampe più grandi, come un ritratto della nota parlamentare italiana Cicciolina, moglie dell’artista dal 1991 al 1994, si prestano a questo gioco, tuttavia, l’ultima sala placa un po’ l’istinto “selfistico”.

Le braccia, infatti, tornano al loro posto, ai lati del corpo, qualche mano ancora stringe un telefonino, ma i nasi sono tutti all’insù a guardare la maestosità della serie Gazing Ball dove enormi sculture dell’arte greca classica sono riprodotte con la sola aggiunta di una sfera cromata, magica.

E non resta che sorridere, stavolta non a sé stessi riflessi in uno schermo, ma alla perfezione di forme che pur scontrandosi con un oggetto estraneo e disturbatore come quella palla colorata, conservano tutto il loro significato e svelano una sacrale, classicissima modernità.

In copertina: Balloon Dog, Celebration, 1994 -2000; a seguire Donkey, Easy Fun, 1999 ;Farsese Hercules, Gazing Ball, 2013 ( foto di Andrea Giulia Monteleone)

di Andrea Giulia Monteleone


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