Esistono luoghi, immobili e muti, che restano sfondi dell’esistenza di ognuno. Si stagliano sulle nostre paure, li ritroviamo in incubi conosciuti e poi in sogni di pace.
Il mio è un posto a cui non so dare un nome, solo volti.
C’è il volto di un uomo bellissimo dagli occhi grigi, del colore dell’acqua di un piccolo lago che si specchia su nuvole di piombo penetrate dal sole.
Quell’uomo era mio padre, quando ancora lo amavo.
Ancora oggi, ogni volta che ne ho bisogno, cerco quel laghetto dalla superficie tinta di grigio, nella mia mente, ed in quei ricordi ci sono anche io, bambina, con un cappottino rosso e le mani sporche di terra.
“Guardami papà sono un uccello, sono un uccelloooo!”
“Vieni qua, ti sei sporcata tutte le scarpe.. adesso chi la sente la mamma!”
Un tono premuroso di rimprovero. Lo stesso che richiamo ancora a me, anni ed anni dopo, per evitarmi uno sbaglio, per inventarmi, da sola, una strada retta da seguire, una regola inderogabile cui obbedire, per me, per il mio bene. Voci assenti dei miei ricordi, per sopravvivere all’assenza di chi sempre su quel piccolo lago mi ha abbandonata.
A diciassette anni, innamorata di quell’uomo come se uno ce ne fosse al mondo, da poter amare, ricordo di essermi preparata per tutto il pomeriggio, aspettando che lui venisse a prendermi.
Sul letto, una filastrocca di maglioni indossati e poi gettati via alla rinfusa, come se avessero colpa. Solo dopo avrei capito che non c’entrano i difetti del corpo o ciò che li copre, ma è proprio che per certi appuntamenti si è sempre impreparati. Il mio, poi, era un incontro atteso da mesi, non sarei mai stata abbastanza perfetta. Volevo sembrare già donna, cresciuta più del previsto, più di quanto si possa fare in soli quattro mesi.
Immobile davanti allo specchio. Fissavo il mio viso alla ricerca dei segni che il tempo della sua assenza ci aveva lasciato su. E mi accorgevo della loro ingiusta assenza.
Fondotinta.
Non c’erano tracce delle lacrime, quelle della sera in cui se ne era andato di casa.
Terra.
Spariti anche gli occhi rossi e la desolazione della mattina del mio compleanno, quando mi aveva fatto trovare un biglietto in cui diceva di lasciarmi una carezza. Una coccola di carta per i miei diciassette anni.
Matita. Pesante
“Sono una donna. Sono una donna. Sono cresciuta, mentre non c’eri”.
Rimmel.
Ed era in ritardo. Come al solito, sempre in ritardo. Se ne era andato perché con noi si sentiva in gabbia, l’avevo sentito mentre lo bisbigliava alla mamma, lei come una pietra, lui come un tenero ramo pronto a spezzarsi.
Spezzatosi.
Rossetto. Rosso e indelebile.
Come la rabbia e il disprezzo. Come il bene, che non potevo negargli. Come l’impellenza di colmare quell’assenza e lasciarlo tornare nella mia piccola inutile vita senza di lui.
Alla fine era passato a prendermi.
La sua macchina profumava troppo. Di un odore che non potevo riconoscere.
Mezz’ora dopo eravamo sempre su quella panchina. Su quel laghetto dello stesso colore dei suoi occhi, ma lui era invecchiato e io non ero ancora una donna.
“Ti sei truccata, stai bene”.
“Non sto bene, l’ho fatto apposta per fartelo capire, papà”.
“Dove sei stato tutto questo tempo?”
“Dove hai dormito? Con chi? Mi hai mai pensata? Per quale motivo non mi hai mai chiamata?”
“Che cosa ti ho fatto io?”
“Ora sei grande, possiamo anche parlarne, per questo ti ho chiesto di vederci… tra me e la mamma le cose non stavano andando bene, io non riuscivo più a condividere con lei lo stesso tetto… avevo bisogno di iniziare una vita nuova…”
Mai sentite tante sciocchezze dette con un tono così. Il tono di un saggio che svela con rassegnazione e rammarico un segreto sull’esistenza, sui cicli del mondo, sulle grandi incognite dell’avvenire.
Tutto intorno a noi era verde spento. Marrone triste di foglie cadute.
Quelle oche che giocavano nell’acqua.
I bambini che si rincorrevano.
Le chiacchiere di due mamme tra loro.
Tutto mi disturbava e mi era nemico.
Fissavo quel tempio candido affacciarsi sul lago. Era lì da quanto? Di sicuro c’era già quando avevo ancora il mio cappottino rosso e le scarpe sporche di terra bagnata.
Ruderi che sapevano come amavo un uomo che mi ha tradita.
Fissavo quelle colonne in silenzio, come attendendo che dalla loro terribile solidità arrivasse un messaggio rassicurante, il sostegno che mi mancava, che sarebbe sempre mancato.
Lui se ne sarebbe andato, di nuovo.
Oppure sarebbe rimasto, ma non come un padre, come un vecchio amico che non lo è più e a cui devi raccontare ogni tanto come sta andando la tua vita, se stai per laurearti o se aspetti un figlio.
In quel momento, davanti a me, nella mia testa, si affacciava un’immagine che mi avrebbe accompagnata per sempre. C’ero io, con i capelli sciolti e il rossetto dei miei diciassette anni, nascosta tra quelle colonne, con l’aria di chi non può più ritrovarsi; poi c’era quella bambina sorridente e con il viso paffuto, dall’altra parte del lago, vicino ad una panchina. Gli estremi del filo della mia vita.
Esistono luoghi, immobili e muti, che restano sfondi delle esistenze di ognuno.
Il mio è un posto a cui non so dare un nome, solo volti.
Massimo ha detto, dimenticandosi un giorno la sua riservatezza nel mio cassetto, che capirà di amare qualcuno solo quando desidererà di viverci almeno altre cento vite insieme.
Lui, che ha iniziato a camminarmi affianco in silenzio, nella strada che prima percorrevo diffidente e sola, mi ha insegnato che ogni tanto ci si può fidare, ma bisogna stare attenti.
Bisogna dosare la sensibilità.
Altrimenti tutto ciò che è bello diventa meraviglioso e il brutto invece può distruggerti. Ho dovuto impormi di non lasciare andare a briglia sciolta il mio sentire, per salvarmi dalla tentazione di essere sentimento puro in ogni situazione.
Anche Massimo, allora, si è ferito, da qualche parte, prima di curare me.
Eppure, nei momenti in cui mi parla, mi rendo conto di come i suoi sforzi restino del tutto vani.
Il suo sentire è così libero che mette voglia anche al mio di liberarsi.
Per questo è qui che ho deciso di incontrarlo, nel parco di Villa Borghese, in una mattina in cui il cielo è senza nuvole e l’acqua trasparente abbraccia il tempio in cui ancora mi vedo nascosta, vestita come in quel pomeriggio senza sole, senza mio padre.
Tornare in questo posto, con le mie gambe, con Massimo, mi fa salire qualcosa dentro che vuole uscirmi dagli occhi. Ma io sono brava, non glielo permetto.
È primavera. Ed il verde che ci sta intorno è lo stesso dei suoi begli occhi.
L’aria mi sorride come sorride lui.
Senza vederla, Massimo passa accanto alla bimba con il cappottino rosso, la sfiora con il braccio e lei lo fissa per un po’, poi torna a giocare.
Ci sediamo su quella panchina. Come un sortilegio.
“Non dovevamo prenderci un caffè?”
“Si eccolo!”
“Dove?” – ride.
Dalla borsa tiro fuori due bicchierini di plastica, le bustine di zucchero e un thermos con il caffè caldo.
“Grande!”
Sapevo che lo avrebbe detto.
E mi chiedo se questo posto abbia in sé qualche magia. Se queste acque sappiano capire le persone e tingersi del colore della loro anima.
Oggi l’acqua è trasparente, come Massimo.
Cristallina.
Noi siamo qui, a guardare l’uno nella tela dell’altro, pur sapendo che nessuna delle due è immacolata come avremmo voluto per un’occasione simile. Ma come potremmo innamorarci di un dipinto senza colori o linee? Ci si affeziona alle vite degli altri proprio perché il loro percorso disegna paesaggi e storie che forse attendevano solo il nostro intervento, per un motivo o per un altro.
“Vedi quel tempio?”
“Si bellissimo”.
“E poi che vedi?” – si gira e mi guarda
“Vedo te”.
E lo so che non vede tutte le me che infestano questo posto, come docili fantasmi.
So che la sua risposta voleva dire altro, ma non per questo l’ho portato qui.
È stato per averlo nei sogni di pace legati a questo luogo. E poi per ringraziarlo.
Perché il rancore mi ha abbandonata.
Perché sono come lui.
Il brutto è riuscito a distruggermi, ma questo bello è la mia meraviglia.
Racconto di Alessia Rosati All rights reserved
Racconto vincitore del 1° Premio Letterario Coppedè ” I laghi di Roma” - anno 2012
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