Vi propongo un gioco, che vita avreste se foste nati in Cambogia dove 4 operai tessili sono stati abbattuti dalla polizia durante una protesta per ottenere un aumento del salario che oggi è di 80 dollari al mese? O invece se foste venuti al mondo in Bangladesh dove, dopo il crollo della fabbrica delle grandi firme globali, è stato salutato come un evento epocale l’incremento del salario minimo delle operaie da 25 a 37 centesimi l’ora.
E magari immaginate di essere dipendenti della Chrysler, dove già dopo l’accordo con la Fiat i lavoratori neo-assunti dopo il salvataggio dell’azienda e il rinnovo del contratto, venivano pagati la metà di quelli assunti in precedenza – 14 dollari l’ora invece di 28 – pur lavorando fianco a fianco con compagni che prendevano il doppio. E immaginate di essere operai della Fiat che non produce più dopo la propagandata acquisizione.
Ha un bel dire Renzi che il futuro del lavoro e della crescita si devono imperniare sul merito. Hanno un bel dire i suoi guru, da Serra a Abravanel che bisogna valorizzare il talento e rendere il nostro Paese più ricco e più giusto, interrompendo il “circolo vizioso del demerito”, quello basato su raccomandazioni, fedeltà amicali e familiari, che a loro dire, e se ne intendono di sicuro, ha condotto a una società basata sulla cooptazione anziché sulle competenze. Il gioco dovrebbero cominciare a farlo loro, perché la lotteria naturale che li ha collocati arbitrariamente in posti giusti per emergere, in famiglie giuste per essere protetti e promossi, in clan giusti per essere valorizzati è profondamente ingiusta.
E lo dovrebbe fare l’assessore ai Beni culturali della Regione Sicilia, che sotto lo slogan “meritocrazia no raccomandologia”, ha indetto un concorso all’insegna appunto di questa parola jolly, che va bene per riempire tutti i vuoti di idee e progetti e per dare sostegno all’edificio ideologico di nuove iniquità, di nuove clientele e nuovi familismi, più dinamici e innovativi. E d’altra parte proprio la nuova leva del Pd, che spaccia per meritocrazia anche la liturgia delle primarie, continua a vendersi il copyright del ticket inscindibile merito e lavoro, il primo come condizione ineludibile per il secondo.
Il metodo lo conosciamo, il vitalismo del Fare per nascondere inadeguatezza e impotenza, la semplificazione per aggirare regole e leggi, il merito per legittimarne la vera interpretazione: chi più ha si merita di continuare ad avere.
Ma non occorre essere Sen e neppure don Milani per sapere che è solo l’eguaglianza delle condizioni di partenza, il requisito essenziale di ogni scelta basata sul merito. Che se sei nato dalla parte sbagliata del mondo o della piramide sociale le piramidi continuerai e tirarle su tu, trascinando massi, di morire affamato e sconosciuto invece di esservi deposto a futura e perenne memoria.
Non stupisce che la meritocrazia come scala di valori per la conferma di cooptazione eccellenti e poco sorprendenti, a cominciare dai dispositivi elettorali, sia entrata di prepotenza nella cassetta degli attrezzi di questo ceto affaccendato a assicurarsi la permanenza nelle stanze del potere, costituito di giovani già vecchi che intendono l’uguaglianza di partenza come l’essere più uguali degli altri.