La prevedibile uscita dalla scena istituzionale di Silvio Berlusconi introduce una sorta di spartiacque nella ricerca sul rapporto tra televisione e politica. Vent’anni di pratica, preceduti da altrettanti di incubazione. Un disastro latino, come fu scritto anni fa da un autore francese. E purtroppo un tragico laboratorio di studi sugli effetti dei media sulla politica e sulla società. Del resto, le recenti elezioni politiche e amministrative italiane avevano dato un ulteriore (e per certi versi inedito) contributo alla discussione. Per descrivere le (almeno apparentemente) opposte connotazioni di Berlusconi e di Grillo –onnipresenza mediatica e assenza mediatica- è sempre attuale l’analisi di Ilvo Diamanti, che in verità utilizzava come polo dialettico il Cavaliere e Romano Prodi. E, infatti, i dati più eclatanti dei mesi scorsi sembrano una ‘lectio magistralis’ sull’argomento. Il successo del Movimento Cinque Stelle e il recupero del Pdl ci confermano che ancora molto, moltissimo ruota attorno alla vecchia televisione generalista, in un senso o nell’altro.
Lo ricorda nel suo ultimo bel volume –“La televisione”, 2013- Carlo Freccero. E’ bene chiarire subito, però, che quella di Grillo non è un’assenza mediatica in senso quantitativo, bensì il rifiuto degli stili e delle estetiche della tv, centrati sulla reiterazione dell’apparato scenico dei talk-show e dei ‘pastoni’; per apparire in modo diretto e non ‘mediato’. Contro l’intervista giornalistica classicamente intesa, anche per l’usura talvolta irritante del tradizionale pastone politico. Del resto, nel programma elettorale del “M5S” si propone l’abolizione tout court dell’Ordine professionale e di ridurre ad un’unica rete l’offerta della Rai. Tuttavia, proprio il rifiuto delle forme consuete della comunicazione e dell’informazione politiche ha reso Grillo un caso mediatico. La meticolosa e persino dura ‘assenza’ dai media italiani ha rovesciato uno degli assunti classici della teoria, mettendo in risalto il ruolo contrastante della rete. Uso ‘alternativo’ dello schermo e social network sono stati la miscela vincente di Beppe Grillo. Tuttavia, non si coglierebbe il successo del”M5S” se non si prendesse definitivamente atto che è avvenuto un cambio di paradigma, con la crisi brutale e brutalizzante delle culture del capitalismo liberista degli ultimi venticinque-trent’anni. E in fondo il rovesciamento tra tv e rete è il sintomo di quanto è accaduto. Guai a non vedere nel “grillismo” una traccia di un rivolgimento più grande e più generale, che mette insieme –con apparente anomalia- il rapporto tribunizio tra l’uno e la moltitudine con l’intelligenza connettiva (Derrick de Kerckhove , 1997) della società.
Come mai, invece, è potuta appalesarsi la ripresa di Berlusconi basata certamente sull’utilizzo massivo della televisione? Qui sta un aspetto peculiare della post-modernità tanto nella politica quanto nei media. Chris Anderson descrisse qualche anno fa il fenomeno della ‘coda lunga’, figlio della conclusione della lunga stagione dei sistemi culturali strutturati e di un universo mediale più semplice e analogico. Non c’è da meravigliarsi del determinarsi delle ‘contraddizioni paradossali’ descritte su altri territori analitici da Gregory Bateson. Possono coesistere grandi nicchie diverse e lontane. Più grandi o più piccole. Il fenomeno berlusconiano è probabilmente interpretabile con la categoria del ‘populismo mediatico’. Quello (assai differente) di Grillo con il concetto immaginato quasi trent’anni fa da E. Noelle-Neumann di ‘clima d’opinione’.
Il cosiddetto berlusconismo va al di là dello stesso funambolico ruolo politico-politico del tycoon di Arcore. Ha sdoganato il tema della destra, che in Italia ha sempre dovuto fare i conti con la storia del fascismo e ha intercettato diversi fili di congiunzione tra la globalità mercantile e i nuovi individualismi, gli istinti primordiali volti a tutelare la proprietà privata (specie quella piccola e media) considerata a rischio nell’allargamento dello spazio e del tempo. E’ un populismo elettronico che dà fiato e simulacro identitario a gruppi sociali che si sentono privi di protezione corporativa. La capacità di Berlusconi, che ha occupato per le anomalie normative italiane la scena mediatica controllata direttamente o indirettamente, è stata quella di aver fatto lievitare dal ventre molle delle culture massificate il prodotto peggiore del mix tra globale e locale, erigendo a linea politica il terrore del diverso e del tempo della contemporaneità. Ha unito le ansie ancestrali con la leggerezza (non quella di Calvino) della società mediatica. Ha costruito un vero clima di paura agitandosi una volta a favore e un’altra contro la stessa modernità, per lo meno nell’accezione corrente che se ne dà. Anzi. Ha persino contribuito in qualche modo a determinare il concetto di ‘surmodernité’, tanto caro a Marc Augé. L’antropologo francese ci invita a pensare che le attuali trasformazioni siano meno razionali di quanto si sostenga, che l’economia della società postindustriale ‘sviluppata’ non si spiega del tutto senza prospettarne il simbolico, l’ideologia, le credenze. (2006). Tra l’altro, talune forme di tale ventata (il tentativo di superare le ‘casamatte’ gramsciane con il rapporto diretto mediatizzato con il pubblico) hanno fatto breccia negli stili della sinistra. Così, nella crisi economica violenta in corso nell’Occidente, il ‘vissuto’, l’’emozionale’ contano assai di più, nella società liquida post-moderna (Maffesoli, 2006). Ne parlava in tempi non sospetti Foucault, con il riferimento alla ‘biopolitica’. Il tema si complica ulteriormente se si considera in modo non occasionale la crescita, per usare la definizione di Manuel Castells, della ‘società informazionale’, che comporta modifiche sostanziali tanto dei caratteri della soggettività sociale quanto della rappresentanza, ovviamente anche nelle istituzioni.
Derrick de Kerckhove sostiene che l’attuale struttura politica è figlia della cultura letteraria, mentre l’era della rete ha aperto un nuovo capitolo, che non significa superamento, ma certo riconsiderazione del tessuto nervoso della democrazia classica. E, va aggiunto, delle stesse forme dell’organizzazione politica, a cominciare dalla questione del partito nella fisionomia del Novecento. Naturalmente, nel voto ‘difensivo’ dato a Berlusconi si riconosce un pezzo di Italia che vuole sognare, illudersi e, se possibile, non dare retta alle regole. Del resto, il nostro è un paese dove non c’è mai stata la ‘riforma protestante’. E una certa illegalità diffusa, il non pagare le tasse piace, e val bene qualche legge ‘ad personam’ o la vita privata non commendevole dell’ex premier.
di Vincenzo Vita - http://www.articolo21.org
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