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Medianeras, di Gustavo Taretto. La solitudine dei numeri urbani
Creato il 24 agosto 2012 da Saramarmifero“Dov'è Wally?”, è la domanda che ossessiona Mariana (Pilar Lopez de Ayala). Frustrati da una ricerca che si snoda infruttuosa fin dalla più tenera infanzia, gli occhi di quest'eroina malinconica scannerizzano febbrili i disegni ultra-popolati dell'illustratore Martin Handford, convinti che, prima o poi, anche in mezzo ad una folla oceanica riusciranno a stanare quel maglione a righe rosse e bianche e ad incrociare, dopo tanti fallimenti, lo sguardo occhialuto del suo indossatore. Per scoprire che, neanche a dirlo, l'anima gemella è sempre stata lì, sotto il suo naso, nascosta dietro una delle pareti cieche che scandiscono gli spazi urbani di Medianeras, in una Buenos Aires satura e claustrofobica. Mariana e Martin, così vicini eppure incapaci di vedersi, persi nel magma mostruoso della metropoli moderna. Lei è architetto, ma non ha mai costruito una casa e alle spalle conta le macerie di rapporti d'amore malamente crollati. Si è riciclata come arredatrice di vetrine, “spazi astratti, senza un fuori e senza un dentro” e passa le giornate a vestire e svestire manichini, surrogati in plastica di amanti in carne e ossa. A pochi passi dal suo monolocale, "piccolo quanto una scatola di scarpe", c'è quello di Martin, agorafobo e ipocondriaco progettatore di siti web che alla compagnia umana preferisce, pavidamente, l'auto-reclusione dietro lo schermo di un computer.
Nato come regista di spot, l'esordiente Gustavo Taretto confeziona una pellicola a metà strada tra commedia sentimentale e discorso sociologico (rigorosamente all'acqua di rose). Il risultato è una specie di C'è posta per te, rivestita dei simbolismi pop masticati durante l'apprendistato da pubblicitario, che senza mezzi termini aspira a nobilitare l'assoluta prevedibilità della trama con un copia-incolla, più o meno efficace, della tanto celebrata estetica da Sundance. Il sorriso si vela di dolente malinconia, sulle labbra riaffiora il sapore agrodolce che, ormai da qualche tempo, fa da irrinunciabile retrogusto a un certo cinema romantico made in Usa. Molti, giustamente, hanno ricordato le atmosfere di 500 giorni insieme. Ora, la visione si rivela, se non particolarmente originale e decisamente presuntuosa nelle sue velleità urbanistico-filosofiche, complessivamente gradevole, complice una coppia di attori convincenti e una gestione oculata del ritmo, inscritto in quattro pilastri narrativi corrispondenti alle quattro stagioni.
Il riuscito profilo intimista si inserisce in un macro-apparato, grafico e discorsivo, che indaga il concetto della solitudine dell'individuo nell'odierna giungla metropolitana. Concetto, a dir la verità, inflazionato come non mai e, quel che è peggio, di recente affrontato sul grande schermo in modo assai meno banale. In Un amore di gioventù, ad esempio, dove la carriera da architetto della protagonista rispecchia il suo percorso di ricostruzione interiore. Oppure El hombre de al lado, anch'esso ambientato nella capitale argentina, dove un semplice cittadino ricava dal proprio appartamento una piccola finestra che si affaccia su Casa Curutchet (opera di Le Corbusier), in una Buenos Aires non distante dal puzzle di fotogrammi collezionati da Taretto per Medianeras: una pianura di palazzi grigi e senza luce, un affastellamento schizofrenico di stili architettonici che mortificano le più elementari esigenze di abitabilità.
Essere e abitare, qui, sono due facce della stessa medaglia. “L'uomo è a immagine e somiglianza della città e la città è a immagine e somiglianza dei suoi abitanti.” Questa la frase dello scrittore spagnolo Luis Martin Santos che parebbe aver ispirato il film. La socialità vera e propria, quella fatta di carne e spirito, non può che disertare questo caotico aggregato di non luoghi (i viali, i fast food, le piscine), in cui le vite si sfiorano senza mai incontrarsi davvero, e finisce per trasferirsi nelle piazze vituali del web, per pascersi dell'illusoria, facile promiscuità promessa dai social network. Guardando la gabbia di cavi che imbrigliano l'azzurro del cielo, Mariana si chiede se queste reti che legano una casa all'altra non raddoppino, piuttosto che accorciare, le distanze tra gli individui. É sotto la cupola del planetario, nell'incontro, pur fittizio, con un cielo stellato finalmente libero dalle imbragature della città, che la ragazza può ritrovare un barlume di sereno e relativizzare ogni nevrosi, nella consapevolezza di non essere al centro dell'universo.
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