«Ed avvenne che, mentre sedeva a tavola nella casa, ecco: molti pubblicani e peccatori, essendo giunti, sedevano a tavola insieme con Gesù e con i suoi discepoli. Ed avendo visto, i farisei dicevano ai suoi discepoli: “Perché con i pubblicani e con dei peccatori mangia il vostro maestro?” Egli allora, avendo udito, disse: “Non i sani hanno bisogno del medico, ma coloro che hanno male. Andandovene, dunque, imparate che cosa significhi: misericordia voglio, non sacrificio (Osea 6:6): infatti, non sono venuto a chiamare dei giusti, ma dei peccatori”» (Matteo 9:10-13)
Ci troviamo nell’evangelo secondo Matteo, a non molta distanza dall’inizio dell’attività pubblica di Gesù, che, nei capitoli precedenti, ha preso forma attraverso il poetico ed estremamente concreto «discorso della montagna». Appena prima che abbia inizio il nostro racconto, Gesù ha chiamato dal banco delle imposte Matteo, un pubblicano,
perché lo seguisse: eppure, in un primo momento, sarà Gesù, senza alcuna esitazione, a seguire Matteo sin dentro la sua casa per sedere a tavola insieme con lui. Gesù, infatti, non è il maestro inflessibile che, secondo l’immaginario tradizionale, ha soltanto da insegnare: al contrario, egli non disdegna affatto di imparare, specie dalle persone e dalle vicende che, normalmente, i pii religiosi guardano con la superiorità che è propria del disprezzo, tenendole a debita distanza. Gesù, invece, varca senza alcun problema la soglia di casa di un pubblicano, un “collaborazionista”, diremmo oggi: un ebreo che riscuoteva le tasse presso i suoi concittadini per conto dell’occupante romano. Un traditore, insomma, un uomo inviso ai suoi connazionali, un individuo da disprezzare e da mettere ai margini.
Non appena Gesù fa il suo ingresso nella dimora di questo reietto, ecco accorrere altre donne ed altri uomini consimili: pubblicani come lui e peccatrici e peccatori, persone che non si curavano delle prescrizioni della legge e di tutti quei precetti ritenuti indispensabili dagli ortodossi del tempo per potersi dire fedeli a Dio e alla Sua volontà. Insomma: in breve tempo si raduna in quella casa un’assemblea di donne e di uomini di dubbia moralità, un consesso di persone poco raccomandabili: tutta gente da cui è opportuno prendere le distanze se si intende difendere la propria reputazione. E pochi come i farisei conferivano importanza alla reputazione che, come è noto, si difende a suon di atteggiamenti ligi alla più formale delle apparenze: è importante che io non intrattenga relazioni con gente di tal fatta ma, ancora più importante, è che nessuno mi veda in loro compagnia. Insomma, si sa: è sconveniente. Che direbbe la gente, poi? Tutte preoccupazioni, si capisce, a noi del tutto estranee.
Gesù, che delle apparenze e del giudizio sempre affrettato e superficiale della gente sembra non curarsi affatto, siede in mezzo a quelle persone desideroso di ascoltare le loro vicende, di avvicinare il loro dolore e di condividere la loro allegria. Il momento è quello del pasto, il più informale, quello in cui è possibile lasciarsi andare alle confidenze e godere del piacere della compagnia. Gesù non si distingue, si mischia: cosa del tutto incomprensibile ai farisei, il cui nome viene dalla radice di un termine ebraico, farim, che propriamente significa «i separati». Quella mescolanza deve sembrare loro del tutto disdicevole: per chi si definisce maestro, poi, si tratta di un’assoluta mancanza di buon senso e di decoro.
Insieme con Gesù siedono anche i suoi discepoli: e, secondo il procedimento tipico di chi prova fastidio e, per principio, non lo esprime mai al diretto interessato - anche questo atteggiamento che noi ignoriamo del tutto - i farisei rivolgono non a Gesù, ma ai suoi seguaci, la domanda che denuncia tutta la loro perplessità e la loro indignazione. «Ma che fa? Ha idea di chi siano le persone con cui siede e condivide il pasto? E voi? Non gli dite niente?». Sono convinto che uno dei motivi principali per cui i farisei si dirigono ai discepoli risiede nel proposito di insinuare in loro il dubbio circa l’atteggiamento del tutto equivoco del loro maestro: «Ma non vedete come si comporta? Si è mai vista un’assurdità del genere? E questo, voi, avete il coraggio di chiamarlo maestro?». Gesù ascolta l’interrogazione, intuisce l’insinuazione e coglie la vigliaccheria di chi non domanda le cose a chi di dovere: per cui, sia pure non interpellato in maniera diretta, risponde ai suoi accusatori. Come di consueto, però, non lo fa con astio o con risentimento: Gesù crede infatti nella forza disarmante dell’insegnamento, quello autentico, che fa appello, insieme, alla ragione e al cuore o, per meglio dire, come si sarebbe espresso Pascal, «alle ragioni del cuore», che da che mondo è mondo sono le più ignote agli uomini che si definiscono religiosi. Lungi dal condannare i suoi accusatori ed i loro subdoli propositi, Gesù fa in modo che siano essi stessi a formulare il giudizio sui propri fermi convincimenti: e, allo stesso tempo, indirizza le proprie parole ai discepoli, perché comprendano che genere di maestro essi si siano liberamente disposti a seguire, e ai presenti, donne e uomini accusati con lui e prima di lui a causa delle vite che conducono. Parole, dunque, che hanno da dire qualcosa a tutti gli astanti.
Con ciò che dirà Gesù prenderà le difese di coloro che i pii religiosi di ogni tempo condannano senza appello e senza darsi la pena di accostare le loro vicende e il dolore che le segna e le attraversa. Gesù, al contrario, a quelle vicende e a quel dolore si avvicina attento e delicato: li guarisce e non li giudica o, per meglio dire, li guarisce perché non li giudica. Ciò che gli interessa, infatti, è soltanto esprimere vicinanza a quante e quanti, immancabilmente, si sentono respinti, allontanati: lo affascinano i margini, le storie belle soltanto perché imperfette, le persone ricche soltanto perché formatesi alla scuola della vita, immancabilmente segnata dalla contraddizione. Mentre i farisei si fermano sulla superficie di quelle esistenze che giudicano senza accostare, Gesù si fa vicino a quelle vite e, così facendo, permette loro di dischiudersi, di lasciarsi scorgere e penetrare al di là di quelle apparenze a cui, sempre, il giudizio, accontentandosi, si ferma. Gesù assume quell’atteggiamento che ognuno di noi desidera per sé e dimentica con gli altri: si fa accanto, non formula giudizi figli di conclusioni affrettate, non pone alcuna domanda; semplicemente, accompagna. Non si fa vicino per mettere in luce mancanze e inadempienze, per infondere quel senso di inadeguatezza che opprime e deprime e che le chiese hanno utilizzato e continuano ad utilizzare per addomesticare la più indocile espressione della nostra umanità, quella coscienza che, se portata alla luce, non accetta padroni né restrizioni al suo libero esercizio. Gesù predilige chi una coscienza ce l’ha e che, per ciò stesso, sa che la vita non è né può mai essere percorso netto, tessuto integro e immacolato. Gesù ama chi si smarrisce, chi arriva a perdersi non soltanto per audacia ma proprio per errore.
A chi porta in sé e con sé il peso di scelte che si sono rivelate sbagliate, Gesù fa comprendere che nessuno è inchiodato al proprio passato, nessuno è soltanto gli errori che ha commesso ma è e rimane, piuttosto, i passi che può ancora compiere, il futuro che gli si spiega di fronte come una possibilità infinita e sempre aperta di novità.
Soltanto l’evangelo secondo Matteo inserisce in questo racconto la citazione del profeta Osea: «Voglio misericordia, non sacrificio». Gesù la indirizza ai farisei perché la comprendano nel suo senso più profondo. Sono stato incuriosito da questo suggerimento di Gesù, dato a chi, come i farisei, si opponeva alla logica del sacrificio propria del tempio e del suo sacerdozio. Ma non sempre chi si oppone con la bocca si oppone anche negli atteggiamenti: anzi, quasi mai. I farisei contrastavano, proprio come Gesù, l’idea per cui il culto a Dio si rende mediante la soddisfazione del sacrificio che si consumava nel tempio sotto l’occhio vigile e censore del sacerdozio: eppure la logica che anima il loro giudizio inflessibile verso chi ha sbagliato è esattamente la stessa. Gesù dice loro: non è una vita di rinunce quella che Dio gradisce, ma una vita attenta a chi giace prostrato, spesso a motivo di una perfezione che grava come un macigno e che l’uomo religioso mette sulle spalle di chi già porta il peso della vita, in cui, come diceva Gesù, «basta ad ogni giorno il suo affanno». Gesù ci ricorda che Dio non mette pesi, li toglie; chi li aggiunge, spesso, è quella religione che mostra di Dio un volto inflessibile che non gli rende giustizia, perché Dio, in realtà, si fa vicino a chi sbaglia, non lo giudica ma porge orecchio al suo dolore e lo lenisce, e sussurra al peccatore: «Persino quando tu hai smesso di farlo, Io credo ancora in te, nelle possibilità che hai, che sei».
Sia Dio che Gesù, infatti, al contrario di noi, sanno che non il giudizio, ma la misericordia soltanto redime e guarisce, perché non condanna ma rinfranca, non fa leva sul senso di colpa ma sull’ascolto del dolore che ogni errore nasconde senza riuscire ad eliminare. Chi ha sbagliato può riprendere il cammino e non è condannato a ripetere l’errore: perché nessuna persona può essere ridotta ai gesti che ha compiuto. C’è un mare aperto di possibilità di fronte a chi riprende fiducioso la rotta: ma questa fiducia non può darla il giudizio. Soltanto la misericordia sa donarla, perché soltanto la misericordia, in silenzio, siede accanto al nostro dolore, non si cura della colpa e, così facendo, guarisce le nostre ferite e ci rimette in cammino.
Domenica 4 Agosto 2013 – pastore Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com