«Ogni vita sia sottomessa alle autorità superiori: non vi è infatti autorità se non da Dio e quelle presenti sono state stabilite da Dio. Così, chi si oppone all’autorità si è opposto a quanto Dio ha disposto e quanti si sono opposti riceveranno da sé una condanna» (Romani 13:1-2)
Il rapporto con i poteri costituiti è senza alcun dubbio uno dei temi più delicati di quella dimensione che chiamiamo etica e che abbraccia il comportamento umano nel suo insieme. Dopo secoli di cammino, inevitabilmente molto accidentato, dovremmo essere giunti a comprendere che ogni comportamento prende forma soltanto in situazione, poiché in termini assoluti è impossibile predeterminarlo: provo a sciogliere la difficoltà di questa affermazione attraverso
un esempio. Uccidere è senza alcun dubbio un comportamento che ogni etica ed ogni cultura, in linea di massima, condannano: ma se l’uccisione di un solo uomo può salvare, in circostanze specifiche e drammatiche, la vita di molte donne e molti uomini messa a repentaglio dal gesto sconsiderato di un singolo, ecco che siamo costretti a rivedere la nostra affermazione. In questo senso, i cosiddetti imperativi categorici, ossia le affermazioni etiche universalmente valide in ogni circostanza, hanno fatto il loro tempo: oggi sappiamo (o, per meglio dire, dovremmo sapere) che l’assoluto, ovvero ciò che pretende di essere sciolto da ogni condizionamento (culturale, storico, psicologico, sociale), è definitivamente tramontato. Questo è ciò che appare all’occhio ormai disincantato dell’occidente, terra, appunto, del tramonto, come suggerisce significativamente il suo stesso nome: chi è ancora convinto che sia possibile effettuare affermazioni universalmente valide, in fin dei conti si illude.
Tutto il mondo antico, dunque anche quello biblico, è letteralmente intriso di affermazioni che appoggiano sulla presunzione di assolutezza: dalle dieci parole del libro dell’Esodo/Nomi (quelli che noi chiamiamo dieci comandamenti) alle convinzioni religiose, le quali, inevitabilmente, si intrecciano con le molteplici dimensioni del quotidiano. L’apostolo Paolo, naturalmente, non fa eccezione e, nel passo che abbiamo ascoltato, compie delle affermazioni che, se non si tiene presente la riflessione che abbiamo provato a svolgere, non possono che risultare pericolose. Vediamole più da vicino, prestando la massima attenzione alle conseguenze che esse potrebbero avere nel caso in cui venissero assolutizzate.
La prima affermazione attesta l’opportunità di un atteggiamento invero assai discutibile: Paolo, difatti, non suggerisce appena di obbedire, ma esorta letteralmente a sottomettersi alle autorità preposte, qualunque esse siano. L’autorità, di qualsiasi specie, non va contrastata: va accettata supinamente, senza discussione. Pare evidente che ad un’affermazione come questa manchi l’appiglio indispensabile di un’argomentazione: non mi spingerei a definire tale la giustificazione addotta dall’apostolo, secondo cui «non vi è autorità se non da Dio». Dio, dunque, è il garante delle autorità costituite: rivela il proprio volto nell’esercizio dell’autorità, non importa, a quanto pare, se indiscriminato. A chi rappresenta l’autorità si deve obbedire comunque, perché coloro che la esercitano hanno ricevuto direttamente da Dio, in tal senso, un mandato irrevocabile. Dunque, prosegue l’apostolo, ciò vale anche per le autorità presenti: a queste si deve obbedienza. Nel caso di Paolo siamo di fronte al potere imperiale romano: nessuna resistenza, ci si deve sottomettere.
Chi non lo fa, difatti, non si ribella all’autorità soltanto e a chi la rappresenta, ma a Dio, che l’ha conferita: chi insorge contro l’autorità, foss’anche quella di un despota, insorge contro Dio, diviene suo avversario, si macchia di protervia e di arroganza, poiché, rifiutando di sottomettersi al potere costituito, rifiuta la signoria di Dio. Ecco perché, conclude Paolo, chi si oppone a qualsivoglia autorità riceve già da questo atteggiamento la sua stessa condanna, prima ancora che Dio la suggelli.
Ora, non ci sono dubbi, per una volta, che questo sia il pensiero di Paolo e non di quella tradizione paolina successiva che, a giudizio di molti esegeti, ha soltanto in seguito inasprito le tesi originariamente più caute dell’apostolo: l’epistola ai Romani è ritenuta da tutti i ricercatori un documento autografo di Paolo e, pertanto, vi sono pochi dubbi circa il fatto che in essa trovino espressione i convincimenti dell’apostolo. Tenendo fede alla premessa che abbiamo provato a svolgere in termini generali all’inizio di questa riflessione, proviamo ora a mettere in contesto le affermazioni di Paolo che – spero non vi siano dubbi, in proposito – per il fatto di essere bibliche non sono certo divine, ma restano profondamente e contraddittoriamente umane. Dunque: Paolo è un maschio, di etnia ebraica, di estrazione farisaica, di cittadinanza romana. Tutti questi dati, che vengono a comporre la sua figura storica e la sua mentalità, sono tutt’altro che irrilevanti: le sue affermazioni, difatti, sono e non possono che essere figlie del particolare punto di vista che l’apostolo possiede e rappresenta. Nel complesso, la sua è una posizione privilegiata; e, poiché non stiamo certo facendo un tiro al bersaglio che ha per oggetto il povero Paolo, è bene aggiungere subito: la stessa posizione occupata da ciascuno di noi.
Paolo – e noi con lui – non ha motivo di contrastare un potere che, in ultima istanza, lo tutela: ha piuttosto interesse a ribadire che l’ebreo messianico, guardato con sospetto perché eretico, è in verità un cittadino irreprensibile, fedele a Roma e restio a qualsiasi forma di ribellione. Fede e politica non interferiscono in alcun modo: anzi, la prima legittima la seconda, le dà, per così dire, la sua benedizione.
Siamo molto distanti, in maniera del tutto evidente, dall’evangelo annunciato da Gesù, anch’egli, come Paolo, maschio e di etnia israelita, ma di estrazione contadina e propenso a rileggere le scritture ebraiche secondo la prospettiva dei profeti, poco incline alla legittimazione dei poteri, siano essi politici o religiosi. Parole come quelle di Paolo non compaiono in nessuno dei vangeli cosiddetti «canonici», poiché, con tutta probabilità, sensibilmente diversa era la visione che Gesù aveva dell’autorità e del suo esercizio, nonché del rapporto che essa intrattiene (o, per meglio dire, sostiene di intrattenere) con Dio. In Gesù, difatti, il Regno di Dio non si rispecchia in alcuna istituzione umana ma è, piuttosto, realtà di condivisione e di rinnovamento delle relazioni, interpersonali così come sociali. Paolo separa la dimensione privata dell’etica da quella pubblica, dando così la stura ad un’interpretazione della fede come realtà indipendente da quella vita che le è in tal modo subordinata: anche in questo caso, dunque, una fede che obbedisce ad uno schema autoritario e che, difatti, si condensa in affermazioni rigide ed in condanne esplicite rivolte a chi se ne discosta. In Paolo, non certo in Gesù, troviamo i presupposti per una fede che va via via configurandosi come ortodossia anziché come ortoprassi, come dogmatica anziché come discepolato.
Come sappiamo bene la Riforma classica – quella luterana e calvinista, per intenderci – prese le mosse dalla teologia paolina e non dagli scritti evangelici: pertanto, per ciò che attiene al rapporto con i poteri costituiti, essa ereditò la visione dell’apostolo che abbiamo visto espressa in questi brevi ma assai eloquenti versetti dell’epistola ai Romani. Riassumono in maniera magistrale tale rapporto gli autori del romanzo «Q» che, scrivendo sotto lo pseudonimo di Luther Blisset, compiono una disamina scrupolosa e dissacrante della Riforma tradizionale, decostruendone quel mito che, in buona misura, resiste ancora intatto nel protestantesimo italiano. Riporto qui di seguito una pagina illuminante del romanzo:
«Molti (…) non concordano con i padri della Riforma sulla costituzione di una nuova organizzazione ecclesiastica (…) Molti di quelli che sono fuggiti quaggiù si sono scontrati con (…) i loro stessi maestri, oggi indaffarati a ricostruire una nuova chiesa che sappia rimpiazzare la vecchia: nuovi dottori (…) nuovi pastori e anziani che vigilino sulla vita religiosa e morale dei fedeli. Disciplina è la parola che oggi risuona da un capo all’altro delle terre riformate. Una parola che lascia insoddisfatti questi liberi pensatori: gente scomoda per chi aspira all’ordine».[1]
La «Riforma che vinse», quella di cui spiritualmente ma – prima ancora – istituzionalmente siamo eredi, si affermò a spese di un’interpretazione più radicale che vedeva nell’evangelo la rifondazione dei rapporti umani e sociali: temendola, in verità, più di ogni altra cosa, Lutero e Calvino si affrettarono a contrastare questa interpretazione.
Non si limitarono, però, a farlo – come è del tutto legittimo – in senso strettamente teologico: si associarono al potere politico, ne legittimarono la funzione secolare – specie nell’ambito della repressione sanguinosa del dissenso – e finirono per allearsi con esso. È tempo, ormai, di lasciarci alle spalle una visione mistificata e mistificante di ciò che fu la Riforma, per soffermarci sui suoi aspetti contraddittori, sulle sue zone d’ombra, senza demonizzarla e senza tacerne gli aspetti indubbiamente innovativi, ma, al contempo, senza occultarne i limiti e le violenze. Siamo eredi anche di questo e la memoria si redime soltanto attraverso la verità e non certo ricorrendo all’apologia e al mito. Paolo e la Riforma rappresentano due sensibilità tra loro affini attraverso cui rileggere e riplasmare il messaggio evangelico: non tutto ciò che l’apostolo e i riformatori dissero e fecero va criticato, così come non tutto va salvaguardato senza esporlo al vaglio della riflessione storica, politica e sociale. Anche le chiese protestanti hanno – in più circostanze – legittimato poteri autoritari e sostenuto dittature in nome di un’interpretazione letterale di alcuni passi delle lettere d Paolo: perché ciò non torni a ripetersi in questo mondo attraversato dai fondamentalismi e attanagliato dagli autoritarismi legittimati e foraggiati da sedicenti democrazie, dobbiamo tornare a fare teologia in modo critico e a rendere la predicazione il luogo concreto non soltanto dell’annuncio ma – come facevano instancabilmente i profeti – anche della denuncia.
Senza questo carattere indomito e ribelle, la predicazione dell’evangelo si converte in strumento al servizio dell’autorità costituita: noi dobbiamo invece salvaguardarne la carica eversiva, il suo costante invito alla pratica di una disobbedienza civile capace di generare liberazione ed equità.
Domenica 8 Settembre 2013 – Pastore Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com