Meek’s Cutoff (2010), in concorso al 67° Festival di Venezia, è un film scandito dal cigolante incedere prodotto dalle ruote dei carri sul terreno pietroso. Nessun altro rumore: il corteo che viene ripreso con un bizzarro formato quadrato è una lenta processione di uomini e animali che macinano chilometri e chilometri in mezzo alla polvere del deserto. Qui non c’è alcun spirito avventuriero, l’oro viene scartato perché, giustamente, non si può bere, e allora restano soltanto le paure che forgiano gli uomini, paura dell’altro (un indiano), paura della natura (l’inclemenza del luogo, la mancanza di acqua), paura dei propri simili (Meek lo sbruffone).
Kelly Reichardt risemantizza il genere avventura un po’ come aveva fatto con Old Joy (2006), anche qui abbiamo un’esplorazione strettamente coniugata all’ambiente muto, soverchiante, impassibile.
Il tragitto di queste persone incontra perciò la natura più spietata (cosa c’è peggio di un deserto?) a cui vuole sfuggire, ma in realtà la vera esplorazione è quella intima che porta lungo i sentieri interni dell’etica e della civiltà. Questa non è una storia di uomini che si perdono, ma una storia di uomini già persi, e lo si intende dall’inizio con quella scritta lost che non fa presagire nulla di buono.
Il deserto è dunque una metafora esistenziale, uno stato d’animo che, vista la sua sostanza, più arido di così non può essere, e di conseguenza la Guida, colei che dovrebbe condurre non solo sulla mera cartina geografica ma, sempre parallelamente, anche per vie invisibili, è un uomo privo di scrupoli – ma gli altri non sono da meno vista l’idea dell’impiccagione – che dice al piccolino del gruppo di come l’inferno sia abitato da orsi e indiani, perciò: da ciò che la natura figlia, e da ciò che non fa parte del proprio mondo per così dire civile.
Rovesciando, rimescolando e soprattutto allontanando gli stilemi del western e dintorni, la regista americana depaupera l’epopea dell’uomo bianco che si trova perciò smarrito sia fuori che dentro.
Ci vuole un nativo americano per riprendere la retta via, un uomo come loro, come tutti, ma realmente sintonizzato con il mondo che lo circonda, lontano da mete utopistiche (i discorsi dei maschi su ciò che si troverà oltre le montagne), divertito dall’inettitudine dei bianchi incapaci di portare il carro giù per il crinale della collina, commiserevole nonostante le prepotenze subite nell’invocare gli dei o chissà chi di fronte al padre malaticcio, ma soprattutto capace di ergersi a vera Guida, non colei che aiuta, ma che insegna: sebbene la strada sia ancora lunga, un albero è un buon punto di partenza.
Meek’s Cutoff con la sua tendenza a rimpicciolire, a suggerire, a rallentare, si rivela una riserva di materia prima, di cinema che fa pensare: a chi deve credere l’Uomo smarrito se non ad un proprio simile?