Leggo troppo o leggo poco? Dipende. Ad esempio, leggo poca, pochissima narrativa postmoderna, e tanta, tantissima narrativa premoderna o moderna. Non mi piacciono i “tondelliani”, i “cannibali”, i pulp, i narratori della nuova ondata, della “terza ondata”, i narratori nuovi-nuovi, non mi piace tutta questa narrativa sociologica, infarcita di tic, di cult, di trash, di cibi, di musica, di indovinelli, di cyborg, di media, non mi piace questa narrativa “specchio della società”, che fa il verso alla televisione, e non mi piacciono questi scrittori che giocano a fare i “coatti”, i falsamente friendly, gli “sgradevoli”, i “cinici borghesi”, gli “orrendi”, i punk di provincia, i festaioli, i trasgressivi (a modo loro); perciò non mi piacciono gli ammaniti, i mozzi, i brizzi, i culicchia, i scarpa, i vinci, i nove. Negli anni Novanta quando loro scrivevano Branchie, Occhi sulla graticola, Tutti giù per terra, Belli & perversi, io scrivevo Rocciacavata, un racconto “anacronistico”, che non parla di telefoni cellulari, di internet, di new economy, di media, di Beat generation, di lavagne, di bacheche, di aule universitarie, di studenti fuori corso, di docenti zombi, di thriller, di fumetti, di manga giapponese, di canne e di bevute. Certo, loro a passo coi tempi, in sintonia coi tempi, in armonia coi tempi, in sinergia coi tempi, pronti ad essere cooptati, coccolati, stuzzicati, imbambolati da casa editrici, salotti letterati, sceneggiatori d’avanguardia di retroguardia, dal gusto forte, di retrogusto, da questi buongustai della parola, della canzone. Ed io lì, come un idiota, a scrivere racconti anacronistici, d’altri tempi, tardo nostalgici, a leggere Mann, Tolstoj, Joyce, Camus, Svevo, Vittorini, Gadda, Stendhal, ecc., a fare lo scrittore di provincia che non ha capito niente del mondo (letterario)! Già, perché poi il bello che proprio in quegli anni leggevo tantissima sociologia, vera sociologia: i classici, Luhmann, Bauman, Giddens, Berger, Habermas, Beck, ecc., e più leggevo testi di sociologia meno mi piaceva quella letteratura. In fondo, checché se ne dica, ogni narratore vuole “rappresentare” la realtà del mondo e dell’universo in cui vive, essere, appunto, lo specchio dei proprio tempo, incarnare, hegelianamente, lo spirito del tempo. Allora, il disagio, l’inquietudine esistenziale, il senso di solitudine, le lacerazioni della coscienza, gli strappi repentini, la vita o la morte, la gioia o il dolore si crede di poterlo esprimere meglio facendo il “verso” alla realtà: ecco allora spiegata «la deformazione grottesca, l’assunzione mimetica o parodistica dei modelli massmediatici, la registrazione amplificata della realtà attraverso una lingua dell’eccesso», come scrive Elisabetta Mondello. Poi, alla fine t’accorgi che è tutta una «moda», una montatura, un trend da inseguire/seguire, un lasciarsi trasportar dalla corrente, e allora vengono fuori i moccia, i La solitudine dei numeri primi, come se tutta quella pseudo/arrabbiatura espressiva non sia servita altro che a preparare il terreno alla Restaurazione letteraria. Cioè dopo tanta ubriacatura bulimica ci troviamo punto e accapo. Allora, meglio anacronistici che “cannibali”!
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