Meglio scendere in piazza oggi che fuggire all'estero domani.

Creato il 03 dicembre 2010 da David Incamicia @FuoriOndaBlog

di David Incamicia
Di quelle decine e decine di migliaia di studenti in piazza, nelle stazioni ferroviarie, sui monumenti simbolo della cultura nazionale si è detto tanto in questi ultimi giorni, spesso anche troppo e a sproposito. Ci si è stupiti, ad esempio, per il fatto che quei futuri "bamboccioni" abbiano protestato fianco a fianco coi "baroni", il cui egoismo sarebbe proprio la causa dell'assenza di futuro dei nostri giovani. Oppure li si è accusati di non sapere in fondo nulla della riforma universitaria che contestano, di farsi strumentalizzare dai "cattivi maestri" di sempre, di essere semplicemente degli utili idioti ideologizzati e prevenuti verso il "Governo del fare".
Qualche sera fa mi è capitato di assistere alla trasmissione di approfondimento Exit su La7, condotta da Ilaria D'Amico, dove si parlava appunto di questa massiccia ondata di proteste in tutta Italia contro la riforma Gelmini. Tra gli ospiti c'era il Prof. Pier Luigi Celli, Direttore Generale della Luiss, proprio colui che un anno fa fece scalpore per quella lettera aperta rivolta a suo figlio con la quale lo invitava a lasciare il nostro Paese dove non basta studiare per riuscire poi ad affermarsi. C'erano i notissimi giornalisti e scrittori "anticasta" Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, pronti a rimproverare la lobby dei professori universitari perchè in fondo quella riforma qualche aspetto positivo ce l'ha in quanto ad impulso alla tanto invocata meritocrazia. C'era il loro collega di Repubblica Curzio Maltese, schierato senza se e senza ma dalla parte degli studenti. C'era poi il simpatico politico/blogger/giornalista del Pd Mario Adinolfi, che rivendicava i diritti del vasto popolo dei trentenni e quarantenni, vittime di una società gerontocratica, abilmente riassunti nel nuovo settimanale da lui diretto Week. E c'erano, infine, la Ministra della Gioventù Giorgia Meloni e il Direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti, difensori della "rivoluzione del merito" nell'Università. Collegati dalla Sapienza, invece, gli studenti di Storia Moderna.
Ciò che più mi ha impressionato della trasmissione è stato il fatto di vedere, forse per la prima volta dopo un'infinità di tempo, politici e giornalisti cimentarsi con una discussione seria, concreta, di prospettiva. E per di più senza sbraitare, a parte ovviamente il recidivo Sallusti, e ricorrere a quell'odiosissima espressione del "ti ho ascoltato in silenzio, ora fammi parlare". Una discussione animata dal confronto fra tre diverse tesi ma con sempre al centro l'avvenire dei giovani italiani. E' stato interessante, infatti, assistere da un lato all'esposizione della tesi giustificazionista tout court, dove la rivolta studentesca è legittima punto e basta e dove la Polizia è strumento del regime autoritario; così come è stato interessante, d'altro canto, ascoltare il punto di vista assolutamente pregiudiziale nei confronti dei nostri studenti, che se protestano è solo per non studiare o perchè indottrinati all'odio di classe o per analoghe insulse congetture. E se da grandi diventano "bamboccioni" pur se muniti di elevata istruzione - a tanto si è spinto un non laureato direttore di giornale come Sallusti - è solo colpa loro, perchè sono immaturi e viziati e non sanno in sostanza campare. Sì, perchè per il buon Sallusti un giovane di quarant'anni (sigh!), se ha volontà, con mille euro al mese può mettere su famiglia e pagarsi il mutuo. Una forzatura in mala fede simile a quella andata in scena nell'ultima puntata di Annozero, dove si è rappresentata l'onda studentesca come un tutt'uno scevro da sfumature e per niente soggetto a strumentalizzazioni, vittima della repressione berlusconiana.
La tesi che più mi ha convinto, al di là del folklore estremo di chi anche quando si parla di cose serie ci mette il carico ideologico, è stata quella più "mediana" e sobria basata sull'asserzione che non tutta la riforma è da buttare e, al tempo stesso, non tutti gli studenti protestano per mera contrapposizione politica. Personalmente, infatti, ritengo che la riforma dell'Università italiana fosse un atto necessario e non più rinviabile, almeno per gli aspetti che mettono con le spalle al muro i cosiddetti baroni. Quelli, cioè, che esercitano il proprio ruolo educativo in maniera diseducativa, circondandosi di gente di fiducia fra parenti ed amici. Che vivono di rendita all'ombra di un sistema dove il merito non esiste, inadatti a giudicare i ragazzi volenterosi che non hanno santi in paradiso, quasi sempre assenti in Facoltà, attenti solo a promuovere le proprie pubblicazioni accademiche di solito molto costose. La casta dei professori è probabilmente quella che ha meno diritto a scendere in piazza in questi giorni come dicono Stella e Rizzo, è quella che dovrebbe fare una seria autocritica come sostiene Celli. E' quella, in definitiva, che ha causato il collasso finanziario dell'Università pubblica italiana, finita agli ultimi posti in Europa per efficienza organizzativa.
Eppure da quella Università escono fior fiori di professionisti e ricercatori ogni anno, un autentico patrimonio economico e culturale che tuttavia, nell'Italietta rozza e in declino di oggi, finisce quasi sempre per portare le proprie competenze all'estero. Ecco perchè credo, di pari passo, che nella marea di studenti raccolta a protestare nelle piazze e negli atenei ci sia molto più che la semplice contrarietà alla riforma che li riguarda. Nella loro ostinazione c'è soprattutto la volontà di riappropriarsi del proprio avvenire, di conquistare la scena del presente come è giusto che sia. Non sono soltanto gli universitari a condurre questa lotta, ma al loro fianco ci sono i precari, i disoccupati, i licenziati, tutti i giovani mortificati da un sistema spietato e ingiusto. Quei giovani che rimangono tali anche a quarant'anni, costretti a non farsi una famiglia anche se amano qualcuno, a non coronare un sogno professionale anche se hanno alle spalle anni e anni di studio e sacrifici. Perchè il Paese nel quale vivono li rifiuta, e al loro sogno preferisce l'egoismo dei "grandi".

Ma veniamo a qualche numero. La fuga di cervelli è costata all’Italia 4 miliardi di euro negli ultimi 20 anni, pari all’ultima "manovrina" annunciata dal governo qualche tempo fa per i conti pubblici. Il 35% dei 500 migliori ricercatori italiani lascia il Paese perchè non trova condizioni di lavoro adeguate. Fra i migliori 100, uno su due sceglie l’estero, nei top 50 solo 23 sono rimasti in Italia, il 54% è fuggito in paesi stranieri. I dati sull’esodo dei "top scientist" italiani sono stati forniti da uno studio dell’I-Com (Istituto per la Competitività) che ha quantificato la perdita dell’Italia in termini di ricchezza economica.
Valore che è stato ricavato sulla base dei brevetti prodotti dai nostri 20 migliori scienziati che lavorano all’estero in tre campi: Chimica, Informatica e Comunicazione, Farmaceutica. I top 20 della classifica, che lavorano quasi tutti negli Stati Uniti (17 su 20), hanno prodotto dal 1989 al 2009 un numero di brevetti pari a 301. Di questi, in 155 casi sono anche i principali inventori della ricerca brevettata. Negli altri casi sono comunque parte del team scientifico che ha realizzato i brevetti. Considerando in media il valore di un brevetto in 3 milioni di euro e che un top scientist produce in media 21 brevetti nell’arco della sua carriera, si arriva a 148 milioni di euro persi dall’Italia per ogni cervello in fuga. Ma ci sono brevetti, come quelli chimici, che possono valere fino a 942 milioni di euro. La cifra potrebbe dunque essere sottostimata.
Il valore attuale dei brevetti diretti dai top 20 italiani fuggiti all’estero, e accolti principalmente negli Usa, è di 861 milioni di euro netti. Su 20 anni il dato si attesta a due miliardi e raddoppia, 4 miliardi, se si considerano tutti i 301 brevetti, anche quelli di cui le nostre eccellenze non sono solo gli inventori ma a cui hanno contribuito come parte dei team di ricerca.
La migliore ricercatrice italiana è Silvia Franceschi e si colloca al quindicesimo posto della top 20 dei ricercatori italiani all’estero. Lavora in Francia. Diciotto provengono da regioni del Nord e del Centro, solo due dal Sud. La città che ha ceduto più ricercatori è Milano, la prima regione più "disertata" è la Lombardia, che si è lasciata sfuggire 704 milioni di euro come valore attuale dei suoi brevetti, 1,7 miliardi dal 1989. I settori di ricerca in cui lavorano i nostri cervelli sono in particolare la medicina (12 su 20), soprattutto oncologia e immunologia. Seguono l’informatica, le neuroscienze, la biologia cellulare. La classifica è stata stilata sulla base delle citazioni fatte dalla comunità accademica internazionale.
Duemila sono poi gli iscritti alla banca dati "Davinci 2" e lavorano in tutte le più importanti università del mondo. Di loro, solo 1 su 4 intenderebbe ritornare in Italia mentre gli altri si dicono soddisfatti della vita condotta all'estero. Non è un caso che dalla graduatoria Top Italian Scientists, risulta che l'Italia ha i suoi più bravi scienziati all'estero.

Tuttavia, nel 2001 il ministro dell'Università ha varato un programma per il rientro dei cervelli fuggiti dall'Italia. I risultati? Scarsi. "Dei 460 ricercatori, faticosamente riportati in patria, infatti, solo 50 sono stati richiesti ufficialmente dagli atenei italiani e di essi solo un quinto avrebbe superato le forche caudine del Consiglio Universitario Nazionale. L'emorragia dei cervelli è, quindi, destinata a continuare, specialmente dal Sud: se si prende l'esempio della Puglia, si constata che annualmente il 45% dei 23.500 nuovi laureati lascia la regione, per lo più definitivamente".
Ma non sono solo le eccellenze a fuggire dall'Italia. Stando all'ultimo "Rapporto Italiani nel mondo 2010" della Fondazione Migrantes sono oltre 4 milioni gli italiani che vivono o lavorano attualmente all'estero. L'aumento è di 113mila persone rispetto all'anno precedente (frutto anche di nuove nascite all'estero) e di quasi 1 milione rispetto al 2006. Quella degli italiani nel mondo è dunque una presenza in aumento. Dove vivono? In Europa (55,3%), America (39,3%), Oceania (3,2%), Africa (1,3%) e Asia (0,9%). Tra i Paesi, l'Argentina supera di poco la Germania (entrambi con oltre 600mila residenti), la Svizzera accoglie mezzo milione di italiani, la Francia si ferma a 370mila, il Brasile raggiunge i 273mila, Australia, Venezuela e Spagna superano i 100mila.
Tra gli italiani residenti all'estero più della metà non è sposato, quasi la metà è costituita da donne, più di un terzo è nato all'estero, mentre 121mila si sono iscritti all'anagrafe dopo aver acquisito la cittadinanza. I minorenni sono un sesto del totale, ma sono superati dagli ultrasessantacinquenni (18,2%).
Da tutti questi dati, che dimostrano come l'italianità sia un elemento sempre meno valorizzato in Patria e sempre più sentito (e sfruttato) fuori dei nostri confini dove continuano a trasferirsi le migliori risorse ed energie, emerge pure come le piazze di questi ultimi giorni, colme della rabbia e dell'aspirazione degli studenti, facciano molta più paura al potere delle trame autoreferenziali interne al Palazzo.
A quel potere, soprattutto nella sua più evidente e deteriore rappresentazione del "berlusconismo", mai stato così debole e vulnerabile come in questo momento. Se per una volta, dunque, i padri si unissero ai figli nella rivendicazione di maggiore giustizia e di più ampie ed effettive opportunità, forse questa Nazione potrebbe realmente cominciare a cambiare. A prescindere dai conti alla rovescia della politica che comunque, se alla fine porteranno a una svolta radicale rispetto al ventennio alle spalle, sono sempre ben accetti...

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