Il castello nel cielo comprende infatti tutti gli elementi cari al regista giapponese mantenendo ogni spunto e ogni tematica in equilibrio, contenendo così tutto ciò che negli anni ha distinto Miyazaki, il suo stile e le sue opere: ambientazioni retrò – quasi definibili soft-steampunk, personaggi dai volti familiari che come attori ricorrono in diversi suoi film, il tema fondamentale dell’attenzione per l’ambiente, moderato ed equilibrato più che mai in questo caso, insieme a un netto rifiuto per il materialismo sfrenato.
Ogni aspetto visivo racchiude non solo ragioni iconografiche (l’evidente passione dell’autore per la rappresentazione di velivoli e meccanismi), ma anche veri e propri intenti ideologici.
Quasi un mondo ideale per Miyazaki, se non fosse per l’avidità degli uomini di potere che null’altro ricercano se non le ricchezze e i beni materiali – memorabile la scena in cui l’autore ridicolizza la brama di oro di un gruppo di soldati – e in particolare le ricchezze che si celano su Laputa, la città/castello che fluttua nel cielo nascondendosi agli occhi dell’uomo. Un’Atlantide alla rovescia, mito nascosto nel cielo – il cielo, da sempre simbolo di libertà caro all’immaginario dell’autore – anziché nell’acqua, o meglio un eldorado, un miraggio di ricchezza e prosperità dimenticato nel passato.
Pazu e Shita si muovono impavidi, mossi solo da un desiderio di libertà e giustizia, sono due ingenui Adamo ed Eva sui quali Miyazaki ripone ogni speranza per l’uomo. Quasi commoventi le immagini in cui i due a volte vengono rappresentati con tratti ed espressioni adulte, tradendo l’impossibilità di determinarne l’età, quasi non fossero bambini, come suggerisce l’aspetto, ma adulti non corrotti.
Una pellicola quasi trentennale che vince la sfida del tempo senza bisogno di fronzoli, per come sa essere divertente, grazie a gag sottili e mai fuori luogo, e carica di più livelli di lettura e significati.
Peccato per come sia evidente che il passaggio nelle sale non sia corrisposto a un’eventuale ristrutturazione o rimasterizzazione della pellicola; anche l’adattamento, rifatto ex-novo dopo quello del DVD del 2004, sarebbe potuto essere maggiormente curato. È infatti nella traduzione che un orecchio più attento può individuare le uniche sue pecche: quando non si cerca di attribuire un tono quasi aulico ai dialoghi, molti tradiscono una traduzione dal giapponese praticamente alla lettera e quindi un linguaggio spesso legnoso e poco spontaneo.
In ogni modo, questa apparizione tardiva nelle sale non può che far ben sperare in un passaggio futuro anche per Nausicaa della valle del vento, il primo film prodotto dallo Studio Ghibli. Anche se continuo ad augurarmi che un giorno nel nostro paese possano esser scoperti da un pubblico più ampio anche gli altri capolavori dello Studio Ghibli, quelli del maestro Isao Takahata, l’altra anima dello studio, assai affascinanti e legati a un immaginario più quotidiano.
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