Ecco finalmente i frutti raccolti dall’albero.
Li ho appoggiati sulla sedia bianca. Perché era lì vicina e perché il loro colore risalta bene sul bianco. Sono innamorato di questi frutti, ma non so perché. E allora provo a darmi una spiegazione. Inventata? Forse.
Innanzitutto mi piace raccogliere le melagrane perché non è così facile, o meglio, bisogna prestare attenzione, e stare attenti a dove si appoggiano le mani. Il melograno, tra i suoi rami, nasconde tante spine acuminate che se non hai l’accortezza di evitare ti fanno sobbalzare con un «Ahi!», trattenuto a stento in gola. Una piccola sofferenza o una piccola attenzione per avere una cosa bella, che ti piace. Succede anche nella vita, leggetela come metafora. E poi una cosa bella deve proteggersi dal male e dai pericoli esterni. E sono molte le piante che hanno sviluppato questi meccanismi di difesa. Pensate ai cactus nelle zone aride. Cattedrali di spine nel piatto deserto…
Perché poi mi piacciono i frutti del melograno? Qui entra in gioco un fattore personale. Ogni volta che guardo i suoi frutti ripenso a tutti quei dipinti – su tavola o tela – dove il melograno viene raffigurato in chiave simbolica, dal Quattrocento fino al Seicento, tra le mani della Vergine o accanto al Cristo.
Infine per la sua caratteristica morfologica. Tutti quei bellissimi e saporiti chicchi rossi, nascosti e rinchiusi da quella spessa buccia che passa dal verde al rosso accesso, attraverso un’infinità di sfumature delicate.
Domani li apro, riempio una ciotola e la divido tra me e i miei bambini.
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