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melancholia

Creato il 02 novembre 2011 da Albertogallo

MELANCHOLIA (Danimarca-Svezia-Francia-Germania 2011)

locandina melancholia

Parte prima: Justine si sposa con Michael. Ma è disperata, e durante la cena di nozze perde in un sol colpo lavoro, marito e stima della famiglia.

Parte seconda: Justine, il cui stato d’animo le impedisce di essere autosufficiente, va a stare nella villa di Claire, sua sorella, proprio nei giorni in cui un pianeta chiamato Melancholia rischia di schiantarsi contro la Terra, distruggendo la vita umana.

E chi l’avrebbe detto che ci avrebbe pensato proprio Lars Von Trier (il maestro Lars Von Trier, il radicale Lars Von Trier, l’intransigente Lars Von Trier, l’antipatico Lars Von Trier) a confezionare il film catastrofico-apocalittico più geniale di tutti i tempi? Anche se una simile definizione va sicuramente stretta a un’opera che affronta con coraggio, profondità e originalità temi ben poco frequentati dal cinema odierno come la depressione, la solitudine e il senso stesso della vita. Un capolavoro, lo dico subito, un film totale (in quanto elevatissima espressione di genio tanto narrativo quanto estetico), ma soprattutto una delle esperienze cinematografiche più sconvolgenti che mi sia mai capitato di vivere.

Mi risulta persino difficile scrivere qualcosa di sensato su un film di questo genere. Innanzitutto perché sono ancora fisicamente ed emotivamente provato (da 12 ore la mia mente convive con quelle immagini spettrali, con quei volti disperati, con quella musica da Armageddon), poi perché le cose da dire sarebbero tante, ma così tante, che il rischio è di perdersi nel tentativo anche solo di elencarle brevemente. Comincerò nel modo più tradizionale, allora, ricollegandomi alla carriera del regista danese, di cui Melancholia rappresenta a mio avviso il punto più alto, ponendosi in contrasto e, allo stesso tempo, in continuità con le opere del passato. Il film inizia alla maniera del recente Antichrist, con una manciata di minuti privi di dialoghi dalla bellezza estetica senza paragoni: immagini che sono quasi dei dipinti, sospese tra il surreale, il simbolista e il metafisico e commentate da una musica wagneriana che puzza (meravigliosamente) di fine del mondo sin dalle sue primissime note. Si tratta di un prologo iperestetizzante, una sorta di grottesco videoclip musicale all’ennesima potenza. Ma nemmeno il tempo di lasciarsi cullare (o agghiacciare, fate voi) da queste “ultime cartoline dal pianeta Terra” che veniamo catapultati in un inferno di tipo diverso, quello familiare, tra padri mai cresciuti, madri depresse (pure loro) e crudeli, cognati benpensanti e nipoti ingenui: ed è già Festen, che dieci anni fa prevedeva a modo suo il disfacimento dei valori tradizionali, annegati in un mare di rituali inutili (Justine non si toglie il velo da sposa nemmeno quando è ormai chiaro a tutti che la sua è soltanto una messinscena), rancori ed egoismi.

Con la distruzione di una singola vita si chiude la prima parte dell’opera (divisa in capitoli come la maggior parte dei film di Von Trier), aprendosi invece la seconda con il rischio della distruzione globale. È, questa, soltanto una delle tante dicotomie che rendono Melancholia un saggio sulla diversità, sull’alterità che rende soli: madre/figlia, sorella (bionda)/sorella (bruna), uomo/donna (dove l’uomo, come nel finale di Antichrist, pellicola forse solo apparentemente misogina, non ci fa una gran figura), Terra/Melancholia, notte (specialmente nella prima parte)/giorno (specialmente nella seconda) e via dicendo, dove ognuna di queste categorie è al contempo specchio e antitesi dell’altra, in un cortocircuito di angoscia senza scampo: ogni cosa porta alla morte e alla depressione. Ogni cosa e – ciò che è peggio – anche il suo opposto.

Con il passare del tempo e il conseguente avvicinamento di Melancholia alla Terra, la vicenda (se di vicenda si può parlare: il tempo di questo film è come sospeso, in apnea, succedono pochissime cose) prende una piega diversa, dal momento che il rapporto di forza tra Justine (la depressa) e il resto del mondo (i “normali”) si inverte: in quella parte di esistenza che riconduce alla morte la ragazza trova finalmente il suo elemento, il suo habitat naturale, arrivando a raggiungere la pace interiore che tutti gli altri, al contrario (persino il razionale cognato, che si uccide), progressivamente cominciano a perdere. La distruzione imminente permette a Justine di prendere le distanze persino dalla sua apatia sessuale, in un amplesso panteistico notturno che riconduce all’albero di corpi femminili in Antichrist. È la rivincita di Justine sul resto del mondo, un contrappasso simile alle vendette della Grace di Dogville e di Manderlay? Direi di no: il pessimismo totale dell’autore dev’essersi ulteriormente radicato, negli ultimi anni, tanto che la sua protagonista, sebbene abbia “imparato a morire” forse meglio degli altri nel suo costante rapporto con la morte nel corso degli anni, non ha, in fin dei conti, nessuna arma in più rispetto alla sorella e al nipote nell’ora del disastro. Anche Justine è goffa e annoiata nel suo modo di avvicinarsi alla morte: il rifugio che costruisce per il nipotino è scadente, così come le scuse che si inventa per non farlo spaventare. La sua è una gnosis (“Io so le cose”, dice alla stregua di un sbilenco profeta) ben poco salvifica, il cui punto più alto è, ironicamente (per quanto possa essere ironico un elemento qualsiasi partorito da Von Trier), il fatto di azzeccare quanti fagioli sono contenuti in un vaso – ultimo, squallido riferimento alla festa di matrimonio fallita.
Melancholia arriva finalmente sulla terra, ponendo la parola fine alle sofferenze umane, in un finale enfatico e sconvolgente che ben poco ha a che fare con qualsiasi cosa girata in passato dal regista danese. Che (terribile, tragica, orgasmica) emozione!

Se questo film, con il suo ottimo cast (Kirsten Dunst, bravissima e giustamente premiata a Cannes, nella parte di Justine, ma anche Charlotte Gainsbourg, già in Antichrist, i grandi vecchi John Hurt e Charlotte Rampling, Kiefer Sutherland, Udo Kier e Stellan Skarsgård, già nelle Onde del destino), con il suo coraggio intransigente e visionario, con il suo lucido pessimismo e con le sue immagini tecnicamente inarrivabili (perché Lars Von Trier può anche far venire la nausea con quelle riprese traballanti, e infatti spesso lo fa, ma quando vuole sa comporre inquadrature da far invidia a Terrence Malick e Sergio Leone messi insieme), se questo film, dicevo, non sarà ricordato come un 2001: Odissea nello spazio o un Solaris è soltanto perché viviamo in un epoca che, tristemente, non è più in grado di creare miti. Un’epoca che assomiglia in maniera inquietante al mondo di Melancholia.

Alberto Gallo



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