Melancholia è uno di quei film che dopo averlo visto continui a pensarci per giorni e giorni. Non so esattamente a cosa, ma ci pensi. Forse al clima di imminente catastrofe che però viene vissuto con incredibile eleganza, forse all’ambientazione, quasi indefinibile, come se le vite dei protagonisti appartenessero ad un’altra dimensione, su un altro pianeta. O forse perché è in assoluto il film più stranamente affascinante, più criptico e più inquietante che io abbia mai visto. Nonostante non appartenga esattamente a quello che può essere ancora definito film dogma, Melancholia subisce quegli strascichi estremisti di regole cinematografiche che il regista, Lars von Trier, aveva stilato assieme ad un collettivo nel 1995.
Qui, rispetto a Dogville, ad esempio, la scenografia c’è e anche un tantino di effetti speciali, non possiamo certo dire di no anche perché alcune scene, soprattutto quella finale, non sarebbero state possibile senza; si percepisce però quella purezza, quella castità nelle riprese durante le scene del matrimonio in particolare, che sembrano realizzate da un invitato, a livello amatoriale. Il silenzio regna, in questo film, per la maggior parte del tempo, a parte questi intermezzi wagneriani del Preludio di Tristano e Isotta che accompagnano alcuni momenti, come a voler rappresentare un’iniziale particolarmente elaborata di ogni capoverso e che trasformano la pellicola in un’esperienza estetica, più che in una storia da raccontare. Lo dimostrano anche i continui riferimenti ad opere d’arte famose, da Bosch al surrealismo di Magritte, ma soprattutto ai Preraffaelliti, non solo nell’esplicita locandina che rimanda all’Ofelia di John Everett Millais, ma anche nei colori, nelle espressioni, nel pathos trasmesso in maniera contrastante nella fotografia così immobile, apparentemente fredda, ma in realtà decisamente esaustiva.
Geniale l’incipit a moviola, una sorta di riassunto iniziale di quello che sarà poi tutto il film: dal matrimonio alla pazzia, alla presa di coscienza dell’imminente catastrofe. Il tutto servito su un quarto d’ora di bellezza allo stato puro, visioni oniriche, dettagli maniacalmente curati: insomma, un meraviglioso preludio di suoni, colori e gesti che fanno venire l’acquolina in bocca per quello che sarà poi tutto il film.
La prima parte è dedicata alla protagonista assoluta, Justine, interpretata da una eccellente e soprattutto stupefacente Kirsten Dunst: l’apparente felicità raggiunta dal matrimonio con l’uomo che la venera, unita alla promozione ad art director, comunicata proprio durante il ricevimento di nozze, sembra essere l’ingrediente giusto per una vita da sogno. Ma non è così: l’animo di Justine viene lentamente sporcato da un velo di tristezza, di disagio, di malessere che inizialmente sembra emozione, forse, ma che poi assume sempre di più le sembianze di un male oscuro. Ecco quindi che tutto il fastidio della ragazza è fatto vivere anche allo spettatore, che silenziosamente si sente in imbarazzo per lei e sente crescere questo squallore, di una vita che non le appartiene più, che molto probabilmente non ha mai voluto. Nel frattempo, Melancholia inizia a palesarsi, sembra quasi un suggeritore, che da dietro le quinte segue la scena e sussurra nelle orecchie della protagonista le battute da dire.
Secondo capitolo: Claire, la sorella di Justine interpretata da Charlotte Gainsborough, più pacata, più equilibrata, forse anche più rassegnata. La vita di Claire viene raccontata come un’altalenanza di ansia e tranquillità. Ansia, verso Melancholia, che sembra sempre più incombente, che si alterna alla tranquillità conferita dal marito, uno splendido Kiefer Sutherland rassicurante nella sua solidità, nella sua conoscenza dei fatti. Le certezze di Claire crollano con il crollo del marito, che scappa di fronte alla tragedia, dimostrando come dietro questa apparente facciata di fermezza maschile si nascondesse una fragilità e una mancanza assoluta di coraggio. Claire si sente sola quindi, lo sconforto prende il sopravvento, cerca rifugio nella sorella che però nel frattempo si è trasformata in un personaggio quesi shakesperiano, dominato dalla follia e che quindi va incontro al destino inesorabile con una consapevolezza che però è sufficente a far sentire Claire meno abbandonata. E’ questo, in fin dei conti, il leitmotiv di tutto il film: l’accettazione, la rassegnazione di fronte a un destino che non si può cambiare, che ti inganna con dei segnali di speranza, ma che alla fine poi, si rivela per quello che è ed è sempre stato. Inutile quindi accanirsi, inutile cercare rifugio, inutile aggrapparsi a dei fantomatici salvagenti: Melancholia è lì che arriva, che ti guarda, che ti toglie il respiro, che invade la tua atmosfera. Gli americani avrebbero raccontato il tutto con un primo attacco dei marines contro il pianeta nel tentativo di disintegrarlo, seguito da una fuga di massa a bordo di missili verso nuovi ed inesplorati pianeti. Qui, Lars Von trier mette in scena invece la fine del mondo con una pacatezza che lascia senza parole, ma che allo stesso tempo terrorizza internamente.Tutto il resto, i problemi quotidiani che ognuno di noi affronta giornalmente, perdono improvvisamente di significato: cosa sono, in fondo, i drammi domestici del genere umano di fronte ad una cosa del genere?
La fine della felicità di Justine corrisponde alla fine delle certezze di Claire che corrisponde alla fine della vita sulla Terra. Non rimane altro che sedersi e aspettare, perchè l’impatto è vicino. Melancholia entra in contatto per un secondo con i protagonisti della nostra storia. Dopodichè, il nulla, il silenzio, il buio.
Bello.
COMMENTI (1)
Inviato il 01 novembre a 09:37
Nel film sento un gran senso di vuoto, non perché racconti la fine del mondo ma vuoto interiore dell'autore, che è cerebrale e pretenzioso e non ha le qualità per impancarsi a giudice dell'oggi. Sa raccontare una storia apocalittica ma si sente la volontà mentale di farlo non le autentiche capacità di trasformare un brandello d'idea in opera d'arte. e dunque si rifugia nell'estetismo e negli effetti spettacolari. Film freddo, velleitario.