Visti da lontano, questi mobili donano una sensazione di pulizia e sicurezza: le forme squadrate del letto nuziale, le linee dritte del tavolo da pranzo, lo schienale alto e rigido delle sedie concorrono a un senso di ordinato decoro radicato in valori ancestrali. Man mano che la distanza si riduce, quel mondo armonico inizia a perdere la patina: i tarli sono finti, le superfici dei mobili levigate senza sbalzi, la paglia delle sedie eccessivamente tesa. L’industria ha soppiantato l’artigianato e l’arte povera perde di autenticità in una riproduzione in serie per acquirenti di massa.
È il caso di Melania Mazzucco, specializzata nella riproduzione tecnica del Romanzo Ottocentesco, la cui struttura d’appendice applica a qualunque narrazione. Si tratti di un’archeologa tedesca di inizio Novecento o di una famiglia borghese della fine del secolo scorso o di una nobile famiglia italiana del periodo pre-fascista o di un pittore seicentesco, la Mazzucco ingabbia la storia e i personaggi sempre nella stessa struttura narrativa: alternanza di micro-storie in un profluvio di pensieri, parole e ripensamenti. Se questo si rivela ottimale per Il bacio della Medusa (Baldini e Castoldi,’96) e La camera di Baltus (Baldini e Castoldi,’98), mostra, invece, tutta la sua debolezza nei romanzi più recenti, in cui si trasforma nel lugubre mormorio de La lunga attesa dell’angelo (Rizzoli, '08) o nel grido di dolore di personaggi costretti in una struttura narrativa uniformante e claustrofobica. Vita (Rizzoli, '03) e Un giorno perfetto (Rizzoli, '05) sono romanzi woolfiani con il limite di aver arginato Le onde in un sistema razional-industriale. Che senso ha raccontare l’oggi in un Romanzo d’Appendice, nato per intrattenere la borghesia in un mondo che si muoveva con una lentezza dovuta a limiti logistici? Usare Tolstoj per raccontare la lentezza odierna, nata da un eccesso di mondo che genera depressione, significa sottoporre la vita alla stessa operazione che l’industria del mobile compie sulla povertà: levigarla e piallarla, riducendola a un sostantivo che dona la preconcetta illusione della presenza.
Alla Mazzucco, però, va riconosciuta la costruzione di un intreccio narrativo unico da cui si dipanano rivoli secondari sempre ben orchestrati. Questa capacità tecnica manca ad Alessandro Mari, che ha una certa propensione al gioco di collage con cui compone un patchwork più che un Romanzo. Le storie di Leda, Garibaldi, Colombino e Lisander restano quattro blocchi separati, come se l’opera non fosse stata concepita in un piano unitario ma composta all’impronta concentrandosi su micro-storie tenute insieme dalla casualità, che Mari sostituisce a Dio o al fato in una versione bassa e pseudo-laica della provvidenza manzoniana: “Il caso, sciocco colui che non l’ammette, è per definizione e per natura casuale, accade quando accade, sicché, evidenziata la tautologia altro non rimarrebbe, pare. Ai più avveduti tuttavia non sfuggirà che così si tralascia forse ciò che di più umano possediamo, e cioè l’arbitrio di rassegnarci, che insomma vada così anche se non piace, oppure di ingrugnirci di rabbia, ché il caso farà pure come gli pare, ma che quanto meno noi si possa dimostrare e attribuirgli una pessima intenzione di maleducazione” (Troppa umana speranza, Feltrinelli, ’11, 280). Per caso Leda incontra Colombino che, per caso, incontra Garibaldi che, sempre per caso, incontra Anita. Sempre per caso, Chiarella, compagna di Lisander, partorisce proprio in concomitanza con la morte della figlia di Anita e Garibaldi; Colombino, a causa di peripezie varie, è costretto a cibarsi di terra, proprio nello stesso momento in cui Anita ricorda questo episodio della sua infanzia; Lisander si trasferisce nel quartiere San Simone a Milano proprio nello stesso periodo in cui Anita partorirà nella tenuta di Saint Simon in Sud America; Garibaldi dona al figlio Domenico un mantello rosso proprio nello stesso momento in cui Colombino ne riceve in dono uno da Sabina.
“La presenza di Andrea era una benedizione da sabato pasquale, quando si getta l’acqua sugli acciacchi del corpo per sanarli con la forza riparatrice della risurrezione” (525). Può una metafora così religiosa rientrare negli stilemi di un ateo come Garibaldi?
“Ma Giuda, Colombino se lo immaginava con una barba fulva, una tunica color latte, additato e maledetto anche se predestinato al tradimento… Chissà l’angoscia dell’apostolo più ingiuriato: avvertire una pazzia irresistibile che diceva d’agire, il libero arbitrio addormentato per amore di Dio” (266). Può Colombino, alfabetizzato da un curato di campagna, arrivare a formulare pensieri di questo tipo e adoperando questi stilemi?
In Mari, c’è l’altro aspetto dell’industria dell’Arte Povera, la trasformazione della povertà in elemento chic adatto a farci sorridere di accondiscendenza o immalinconire di rimpianto.