di Gianluca Millesoli
Appena qualche mese fa, durante i lavori di pulitura e manutenzione della cripta centrale della chiesa di S. Antonio di Padova a Palagonia (Ct), detta comunemente “Convento”, si rese necessaria l’esecuzione di alcuni interventi sulle fosse di sepoltura ivi allocate. Nella fossa nord, benché fosse l’unica chiusa e foderata in cotto siciliano, non furono ritrovati spoglie mortali; anche la fossa sud risultava priva di qualsiasi reperto osseo o di altro genere. Nella fossa est, di dimensioni ridotte, furono, invece, prelevati esclusivamente un paio di scarpe in pelle nera, il cui formato rimanderebbe ad una sepoltura di adolescente. La fattura delle scarpe prima facie sembrerebbe di fine XVIII secolo. Nella seconda fossa centrale furono rinvenuti solo due sandali in cuoio ed un teschio.
Ma cosa estremamente interessante, nella prima fossa centrale, solidale a quella nord, sono stati recuperati resti ossei, tra cui un teschio recante per due volte un epitaffio ad inchiostro sulla parte frontale che dice, per quanto leggibile: Come tu sei non/ più soi e come so/ seria presce.
La sepoltura, alla cappuccina, si presentava semifoderata sempre in cotto siciliano. Insieme alle ossa, sono stati ritrovati due sandali in cuoio ed alcuni lacerti di saio. Tali reperti sono custoditi nella sacca di lino contrassegnata col numero I ed oggi custoditi con gli altri resti nella cassa lignea deposta nella fossa nord.
Ora, come dice Armando Petrucci, tra le testimonianze scritte prodotte e conservate (documenti, libri ed epigrafi in particolare) è possibile individuare un nucleo più propriamente memorativo, costituito dagli scritti, esplicitamente destinati sin dal loro concepimento e dalla loro prima stesura, a finalità di memoria individuali e sociali. Fra questi sono certamente da annoverare i testi memorativi esposti, di natura pubblica e privata, che contengono ricordo di persone vive o defunte[1].Entrando nella cripta della chiesa di S. Antonio si percepisce come il dato grafico presente, tra graffiti e iscrizioni, sia di tale natura. La cripta già esisteva prima del devastante terremoto del 1693, al di sotto di un precedente edificio religioso di più piccole dimensioni. Infatti, il vescovo Paolo Faraone nel 1623 visita la chiesa di S. Francesco d’Assisi con annesso convento dei frati minori[2], che nella visita pastorale del vescovo Giovanni Antonio Capobianco del 1658 è localizzata in contrada Targia[3]; con molta probabilità questo primo insediamento francescano, come molte altre comunità religiose della Sicilia fino ad allora extra moenia, si decise di trasferirlo dentro l’area urbana[4]. Nella sacra visita del vescovo Capobianco, nel 1650, è menzionata per la prima volta la chiesa di S. Antonio di Padova[5], sicuramente di modeste proporzioni, giacché nella successiva sacra visita del 1655 vengono menzionati due soli altari[6]. In tal senso vanno considerate le datazioni che accompagnano le iscrizioni graffite di nomi di frati, di cui le più antiche risalgono agli inizi del xvii secolo.
Il testo scritto ad inchiostro sul teschio, da una mano databile tra il XVII e il XVIII secolo, riprende l’epitaffio più comune e presente all’ingresso di numerosi cimiteri: “Noi eravamo come voi, voi sarete
come noi”, già attestato anche in sepolcri dei primi cimiteri post-napoleonici: “Ciò che siamo sarete. Ciò che siete fummo”[7], “Quel che sarete voi, noi siamo adesso: chi si scorda di noi scorda sé stesso”[8], “Chi io fui tu sei, chi io sono tu sarai”[9], “Pellegrin che guardi a me, io ero come te, un bel di’ sarai com’io, pellegrin Addio Addio”[10], “O tu Mortal che guardi miri e pensi, io fui qual tu sei con alma e sensi, tu pur verrai cangiato qual son io, pensa di cuore a questo e va con Dio”[11], “Quello che siete fummo. Quello che siamo sarete”[12], “Fui quel che sei e quel che sono sarai”[13] o se si vuole nella sua versione latina “Viator Viator, quod tu es, ego fui. Quod nunc sum, tu eris”.Dunque la cripta centrale, destinata ai soli frati francescani ed alla nobile famiglia Gravina, ospitava nelle sue nicchie i corpi e i teschi di alcuni frati defunti, probabilmente quelli ritenuti più importanti o perché morti in odore di santità. È dunque lecito presupporre che il teschio in questione fosse tra quelli esposti nelle nicchie e nel caso specifico, la rifinitura della sepoltura da cui è stato tratto il teschio e l’iscrizione a sgraffio nella parete soprastante, Padre Francesco da Palagonia 1618, lasciano supporre che i resti de quibus appartengano ad egli stesso.
Sandali di adolescente del XVIII secolo
Certamente il suo teschio era posto nella nicchia ad esso riservato e la sua iscrizione voleva essere monito per tutti i frati ed i fedeli, affinché non dimenticassero la caducità di questa vita e tenessero sempre in mente l’idea dell’immanenza della morte. Molto si è scritto intorno al tema, soprattutto per il secolo XVII: lo si studia come aspetto del pensiero teologico-filosofico, della predicazione e della vita religiosa, della cultura libresca e della mentalità, dell’arte figurativa e delle strategie politiche[14].
Ed effettivamente, con la Controriforma, la Chiesa scopre il suo aspetto coreografico, effimero e retorico che porta alla ribalta del gran teatro del mondo tutti gli aspetti del sacro rendendoli paradossalmente umanissimi, senza lasciar dietro il momento in cui sacro e umano convergono: la morte[15].
Non resta infatti un caso isolato, né in Sicilia, basti pensare alle catacombe dei PP. Cappuccini
Fossa nord e attuale sepoltura dei resti
di Palermo, né in Europa, con il caso emblematico dell’Ossario di Hallstatt, in Austria, dove i cittadini hanno risolto il “problema” delle tumulazioni, raccogliendo ossa e teschi di defunti in un ossario aperto, solo dopo aver posto l’indicazione del nome e data di morte del deceduto sul suo teschio e magari arricchendolo con ornamentazioni pittoriche.
Anche a Roma, sulla via Giulia, si affaccia la macabra facciata della chiesa di S. Maria dell’Orazione e Morte, fondata dalla Compagnia, poi Arciconfraternita, detta appunto dell’Orazione e Morte, che aveva lo scopo di raccogliere i corpi dei morti senza nome, trovati in campagna o annegati nel Tevere, e dare loro cristiana sepoltura. Alla base dei pilastri, accanto ai due portali minori, si vedono due riquadri marmorei con scheletri graffiti, appartenuti alla vecchia chiesa, con le iscrizioni: “Elemosina per la lampada perpetua del cemeterio” con la targa che ricorda “Hodie mihi, cras tibi”, cioè “Oggi a me, domani a te”; l’altro riquadro “Elemosina per i poveri morti che si pigliano in campagna MDCXCIV”, con la Morte comodamente seduta su una panca, ancora con la clessidra in mano, che contempla con sufficienza un cadavere disteso a terra.
Ovviamente il fenomeno sarà stato certamente influenzato da ciò che i viaggiatori narravano circa gli usi sepolcrali del Nuovo Mondo, come lo tzompantli, un tipo di intelaiatura in legno documentata in diverse culture mesoamericane, che veniva usata per l’esposizione pubblica di teschi umani[16].
Ossario di Hallstatt
Tali usi furono combattuti dai primi missionari, ma per un fenomeno di auto-inculturizzazione della fede cristiana o, se si vuole, di un sincretismo con la religione Yoruba, rimasero e permangono tuttora ancora in alcune aree delle Americhe, ad esempio con il culto alla Santa Muerte in Messico, raffigurata anche nelle Catrine[17].Questo personaggio lo si ritrova nell’arte, nel teatro, nell’artigianato e persino nelle caramelle; come in una danza della morte che prende in giro la vita, la Catrina è una rappresentazione della morte che sbeffeggia chi è ancora in vita, ricordando che anche dietro un abito di lusso o un gran bel cappellino, la morte è sempre pronta ad interagire nella vita di ogni uomo.
A Rattenberg, in Austria, si conserva un quadro databile al 1694 dal titolo “Memento mori”; in esso l’iscrizione recita: “Alle Köpf sind gezeichnet bis an ein; schreib darauf dein Nam, es ist der dein” e cioé “Tutti i teschi sono dedicati meno uno, scrivi il tuo nome su di esso: è il tuo”[18].
Gianluca Millesoli
Memento mori (1694), Rattenberg (Tyrol), Augustine museum
NOTE
[1] Cfr. A. Petrucci, Prima lezione di Paleografia, Universale Laterza 811, Bari 2002, pp.118-120.
[2] Cfr. ASDSr, P. Faraone, Visitationes (1622-1626), vol. 37, 409v.
[3] In tale località è ancora oggi possibile visitare la cosiddetta Grotta del Monaco, nella contrada Batia (abazia). Per la visita pastorale cfr. ASDSr, G. A. Capobianco, Visitationes (1658-1663), vol. 42, 97r.
[4] Cfr. G. Zito, Sicilia, in Storia delle Chiese di Sicilia, a cura di G. Zito, Città del Vaticano 2009, p. 76.
[5] Cfr. ASDSr, G. A. Capobianco, Visitationes (1649-1654), vol. 39, 267r.
[6] L’altare maggiore e l’altare dedicato a S. Biagio. Cfr. ASDSr, G. A. Capobianco, Visitationes (1658-1663), vol. 42, 512r.
[7] Tomba del Cimitero Monumentale del Verano, Roma.
[8] Ossario della parrocchia del Fopponino di Milano.
[9] Ingresso del cimitero di Ponte Felcino di Perugia.
[10] Tomba monumentale del cimitero monumentale di Ravenna.
[11] Porta d’ingresso del Convento dei Cappucini di Schio.
[12] Ingresso del Cimitero di Sabaudia, Latina.
[13] Ingresso del cimitero di Gonnosfanadiga, Cagliari.
[14] A tal proposito si veda A. Prosperi, Il volto della Gorgone. Studi e ricerche sul senso della morte e sulla disciplina delle sepolture tra medioevo ed età moderna, Firenze 2007.
[15] Nel Gran teatro del mondo, composto intorno al 1635 e più volte rappresentato, Calderón de la Barca mette in scena l’eterna commedia della vita. Questi versi raffinatissimi offrono al lettore moderno una rappresentazione evocativa e insieme sconcertante delle più delicate tematiche storiche, morali e spirituali di ogni tempo. Per approfondimenti si veda I. Marone, Lo “spettacolo della morte”: apparati funebri e simbologie macabre nel barocco, 2010 disponibile on-line: http://www.baroque.it/curiosita-del-periodo-barocco/spettacolo-della-morte-nel-barocco.html.
[16] Si vedano per approfondimenti: Miller, Mary, and Karl Taube, The Gods and Symbols of Ancient Mexico and the Maya, Londra 1993; Spencer, C. S., The Cuicatlán Cañada and Monte Albán: A Study of Primary State Formation, New York 1982; Ortíz de Montellano, Bernard R., Counting Skulls: Comment on the Aztec Cannibalism Theory of Harner-Harris in American Anthropologist, 85 No.2, 1983, pp. 403-406.
[17] La Catrina è uno dei personaggi più affascinanti dell’immaginario messicano e forse è anche il personaggio più rappresentativo di questa cultura. Catrina viene da “Catrin” che significa elgante, sofisticato ed è un termine che veniva usato per rappresentare la classe privilegiata che dominò il Messico a cavallo tra il XIX e il XX sec. La Catrina è spietata e vera: una donna truccata, vestita in modo raffinatissimo, piena di gioielli, ricca ed elegante, ma il suo corpo è uno scheletro, perché Catrina è già morta.Cfr. F. Lorusso, Santa Muerte Patrona dell’Umanità, Viterbo 2013.
[18] L’opera, proveniente da Kitzbühl, è esposta presso l’Augustine museum di Rattenberg (Tyrol).
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 20 – Settembre 2014.
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