Memories of Matsuko (Tetsuya Nakashima) ★★½ /4

Creato il 04 luglio 2011 da Eda

Kiraware Matsuko no issho, Giappone, 2006, 130 min.

Chi ha seguito un po’ il blog sa che non ho amato particolarmente Confessions, ma ad un regista particolare come Nakashima si dà sempre una seconda opportunità. E’ con occhio critico quindi che mi sono accostato alla visione del precedente Memories of Matsuko, ma penso di poter parlare con cognizione di causa quando dico che nonostante questo sia il suo film migliore e non manchino le trovate geniali, sono presenti di nuovo molti dei difetti già riscontrati nel suo ultimo film.

Memories of Matsuko è un esperimento per molti versi originale e coinvolgente, Nakashima ha infatti creato un melodrammone di più di due ore girandolo come un film solare e coloratissimo, mescolando stili e citazioni, unendo l’estetica da videoclip a quella del cinema classico e infarcendolo di numeri cantati come in un musical degli anni cinquanta. Alla fine di quello che si suol dire un rollercoaster di emozioni si arriva per nulla provati dalla visione e anche un po’ toccati, anche se mi sembrano esagerati alcuni commenti letti in giro che parlano di un film che farebbe commuovere anche i sassi. Nakashima si conferma infatti un abilissimo manipolatore di emozioni, anche se fortunatamente meno ricattatorio che in Confessions.

La storia si focalizza sulla drammatica vita di Matsuko (una straordinaria Nakatani Miki, senza dubbio una delle migliori attrici giapponesi), ripercorsa in flashback dal nipote Sho (impersonato da Eita, protagonista dell’ultimo film di Miike, Ichimei), incaricato dal padre di sistemare l’appartamento nel quale la donna aveva trascorso i suoi ultimi anni, all’indomani della sua misteriosa uccisione in un parco davanti casa. Sho viene pian piano a conoscenza della sfortunata esistenza di Matsuko, il cui unico desiderio era quello di amare e essere amata, ma che per varie circostanze è caduta in baratri sempre più profondi, dovendo affrontare prima l’esclusione dalla famiglia, poi  amanti violenti, passando per prostituzione, galera e molto altro, fino a trovarla come la vediamo all’inizio della pellicola: una donna senza più nulla di femmineo, zoppa e inverosimilmente grassata, che si lascia vivere in una casa colma di rifiuti.

Come sempre con Nakashima l’impatto visivo è notevolissimo e il regista usa ogni scena per far risaltare il suo virtuosismo e la sua estetica estrema. Il tripudio di colori sgargianti è frastornante, uccellini digitali alla Biancaneve accompagnano la protagonista nei – rari – momenti di felicità e migliaia di fiori fanno da corollario a moltissime scene. Nakashima, che non ama muovere la telecamera, riesce comunque a costruire un film senza cadute di ritmo con l’uso di un montaggio a tratti sincopato, a tratti frenetico, proprio dell’estetica del videoclip, e si avvale in numerose situazioni della grafica digitale per creare un mondo estremamente vitale, riuscendo così a produrre uno scarto notevole e originale tra la vicenda narrata e la modalità di narrazione. La sua indiscutibile tecnica e bravura si palesa in più occasioni, come quando riesce a riassumere mirabilmente interi episodi di una sceneggiatura densissima, stracolma di avvenimenti e personaggi, in numeri musicali di cinque minuti, come avviene con l’esperienza in prigione o con il secondo amante di Matsuko. Le musiche, curate dall’italianissimo Roberto Cavallo (quest’anno ospite al FEFF, essendo collaboratore abituale di artisti dell’estremo oriente), sono calzanti e coinvolgenti, mentre le elaborate coreografie non tradiscono la cura maniacale per i dettagli che regna anche in tutto il resto del film.

Uno dei problemi di Nakashima è una sorta di ansia da prestazione che lo porta a filmare ogni sequenza come se fosse una scena madre, imprimendo a tutte il massimo dell’emotività possibile, catturando e esaltando così l’attenzione dello spettatore, ma finendo paradossalmente con lo svilire l’importanza delle singole sequenze, tanto che alla fine si ha l’impressione che di scene madri non ce ne siano affatto. Questo “estremismo emotivo” può essere in qualche modo giustificato dal fatto che Nakashima sta comunque mettendo in piedi un imponente melodramma, da cui riprende i topoi classici per estremizzarli, modificarli o sovvertirli e lo fa, spesso, con un tocco genuinamente ironico, come quando si prospetta per Matsuko e il suo amante yakuza la più classica delle fughe verso il Nord, con doppio suicidio annesso, per sfuggire ai loro inseguitori, ma Ryu (lo yakuza) di morire non ha molta voglia.

Nei tanti episodi della vita di Matsuko entrano in gioco una miriade di personaggi che a volte esauriscono la loro utilità narrativa di lì a poco, a volte ritornano anche nel “presente” della pellicola. Questi personaggi raramente subiscono un’evoluzione (uno dei pochi casi è quello d Ryu), né riescono a raggiungere una certa complessità caratteriale. Ne vengono piuttosto esaltati alcuni tratti, declinati in salsa melodrammatica appunto, che fanno risaltare le doti da caratteristi dei vari attori. Nakashima, come confermano loro stessi, nonostante i metodi spesso bruschi è un buon direttore di attori e si capisce che riesce quasi sempre a spremere il meglio da loro.

Eita e una conturbante Kurosawa Asuka

Tra la pletora di volti più o meno noti del panorama attoriale giapponese figurano grandi veterani (Emoto Akira, Kagawa Teruyuki) e giovani emergenti (Iseya Yusuke, Ichikawa Mikako, YosiYosi Arakawa), lo stesso protagonista del “quadro”, Eita, è convincente, ma colei che si colloca subito dietro l’inarrivabile, per complessità del personaggio e per presenza in scena, Nakatami Miki è la splendida Kurosawa Asuka (protagonista nell’indimenticabile A Snake of June e vista recentemente anche in Cold Fish) che riesce a rubare la scena a tutti quando è in campo col suo personaggio di diva del porno. Sensuale e tostissima è la moderna evoluzione di quella Kaji Meiko che spopolava nei film d’azione degli anni settanta, omaggiata tra l’altro nelle scene carcerarie.

Nakashima è un cantore del pop estremo post-moderno, paragonabile per alcuni versi a Sono Shion, almeno nell’uso di un’estetica dirompente e senza compromessi E’ una strana coincidenza che entrambi abbiano fatto trapelare nei loro film una certa fascinazione per la cristianità, conosciuta solo nelle sue componenti più superficiali in Giappone, ma interpretata in maniera opposta. Per Nakashima è un’ancora di salvezza, un modo di pensare “altro”, attraverso il quale capire il vero significato dell’amore per il prossimo. Per Sono, al contrario, è fonte di superstizioni e fanatismo che invece di purificare corrompe. Ma al di là di questo, quello che sembra differenziarli maggiormente è l’IDEA. Mentre Sono usa evirazioni e smembramenti per dirci qualcosa su di noi e sul mondo contemporaneo, Nakashima cela dietro ad un’estetica spesso pretestuosa e ottenebrante un sostanziale vuoto. I suoi film infatti sono pieni di idee e trovate, ma poggiano sul nulla; non è un caso che abbia scelto per Memories of Matsuko il melodramma, pur rivisitato alla sua maniera, poiché è il genere che gli permette di colpire maggiormente lo spettatore dal punto di vista emotivo (anche se con Confessions farà un ulteriore passo avanti) a costo praticamente nullo, essendo il film una sequenza di eventi tragici che accadono ad una protagonista stoica e dal cuore puro, con la quale è impossibile non empatizzare.

Il film non si spinge oltre un generico “una vita significativa si misura non da quanto si riceve ma quanto si dà di sè”, messaggio lodevolissimo per carità, ma non ci volevano più di due ore di psichedelia e lacrime per arrivarci. Per non parlare poi della figura della donna, tutt’altro che moderna, la quale sembra che non possa essere felice se non con un uomo accanto a sé, e anche se quest’ultimo la picchia, la tradisce, la fa prostituire, non importa: basta aver qualcuno a cui poter dire “tadaima” (sono a casa). Ma lo si può considerare un peccato veniale, di certo non è questo che pensa o che voleva dire Nakashima; è solo il risultato di una storia in cui si bada più alla resa delle immagini e ad impressionare lo spettatore che a quello che si vuole dire. Non mancano comunque sequenze sinceramente toccanti e momenti di grande intrattenimento, mentre il nerissimo sottofinale getta le fondamenta di quello che poi sarà Confessions.

EDA


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