Riportiamo, sulla storia di Mena, quanto descritto dal Dott. Cantone alla pagina 128 del suo Best seller “Solo per Giustizia”, ringraziandolo, per averci fatto conoscere questo angelo:
“L’unica sua colpa era stata quella di essere uscita di casa nel momento sbagliato. Presumibillmente qualcuno se ne era fatto scudo durante un agguato contro un delinquente in soggiorno obbligato a Giugliano. A morire invece fu lei. L’obiettivo dei killer la fece franca e più tardi sarebbe diventato uno dei capi del clan dei Casalesi: Francesco Bidognetti, detto “Cicciott’ ‘e mezzanotte”. Il caso dell’omicidio di quella ragazza malgrado numerose indagini non ha mai avuto soluzione giudiziaria. E lentamente il suo ricordo si è sbiadito. I suoi genitori ne sono morti entrambi di crepacuore. Ma nessuna autorità si è mai preoccupata di ricordarla come meritava, e la sua bellezza fresca e il suo sorriso pulito riaffiorano soltanto nei ricordi amari dei suoi amici e familiari” (Mena Morlando nel ricordo di Raffaele Cantone, in “Solo per Giustizia”, pagina 128, Mondadori editore per la collana Strade blu, 2008).
E’ il 17 dicembre 1980; sono passati circa 20 giorni dal tremendo terremoto dell’Irpinia e a Giugliano – già un paesone al Nord di Napoli, forse con poco più di trentamila abitanti - è in atto da mesi uno scontro feroce fra le bande della camorra.
E’ in quel periodo che si pongono le basi dell’abnorme sviluppo demografico ed edilizio – oggi vi abitano in oltre centomila! – della trasformazione da paese a vocazione agricola a prevalente attività imprenditoriale nel ramo dell’edilizia; sono in molti, in primo luogo i camorristi, che intravedono nel sacco del territorio – oggi squassato anche dalle discariche – un enorme affare.
Mena Morlando è una ragazza di 25 anni; è figlia di un impiegato delle poste e di un’insegnante; ha studiato, così come i fratelli, si è diplomata e sta cominciando a fare supplenze nelle scuole private della zona.
Sono assolutamente sicuro che Mena nulla sapeva dei clan; certo non aveva potuto non accorgersi dei tanti morti ammazzati, ma come gran parte dei ragazzi della periferia avrà pensato che si trattava di cose che non la riguardavano.
Del resto all’epoca io avevo pochi anni meno di lei; mi era capitato di vedere i morti per strada, commentando con gli amici della piazza ciò che stava accadendo; la guerra in atto fra i rampolli del vecchio boss, defunto nel suo letto, che avevano deciso di parteggiare per il boss di Ottaviano ed i nuovi, il cui gruppo era identificato con il doppio nome di battesimo di un vecchio malavitoso ammazzato in paese, che parteggiavano per la Nuova Famiglia. E quante volte parlando degli omicidi con lo stesso interesse di cui si parlava di calcio, avevo sentito pronunciare la frase: “che ci importa, tanto si ammazzano fra loro!”.
Questa era una mentalità diffusa, da parte di chi – in buona fede ma clamorosamente sbagliando – pensava che la camorra fosse solo un problema criminale e non un cancro che stava erodendo la società dalle fondamenta.
Mena era uscita da casa – zona tranquilla del centro storico – vicino ad una chiesa di grande storia, per recarsi in una vicina lavanderia.
Alle 18,15, secondo il rapporto della polizia, era stata colpita da un proiettile, portata in ospedale, dove sempre secondo il linguaggio burocratico, giunse cadavere.
Quella sera la notizia fece il giro del paese; me ne ricordo benissimo perchè mio padre rientrando da una commissione, visibilmente scosso, ce la raccontò; conosceva il padre di Mena, con lui aveva lavorato all’Ufficio postale di Giugliano.
Fu una notizia che sconcertò tutti noi giovani e in tarda serata “radio piazza” aveva già dato la sentenza: Mena era morta per errore.
Alla disperazione dei familiari si aggiunse la beffa più crudele; il giorno dopo i giornali titolarono che Mena, definita in modo irrispettoso e superficiale come “la Maestrina”, era stata uccisa forse per motivi passionali.
Sarebbe bastata un pò più di attenzione; i bossoli trovati a terra erano calibro 9, ma di due pistole diverse; chiaro che era finita in una sparatoria fra camorristi.
Questa diversa ricostruzione venne ripresa nei giorni successivi nella cronaca locale, ma il patatrac era fatto.
Restava qualche schizzo su questa ragazza perbene e pulita.
A distanza di due anni, nella pagina di nera, si diede notizia di colui che sarebbe diventato uno dei capi dei Casalesi, francesco Bidognetti, era stato arrestato per quel delitto (ma poi assolto); era lui, stabilitosi a Giugliano per dar man forte ai nuovi vincenti, l’obiettivo della sparatoria e nel fuoco si era trovata l’incolpevole maestra.
Versione questa, confermata da vari pentiti. I genitori di Mena non si ripresero più e morirono a breve distanza di crepacuore.
Sono stati i fratelli, specie Francesco, che hanno continuato a tenere in vita il ricordo di Mena, cercando di non farla dimenticare da un paese che ha poca memoria.
Nel 1998 fu posta una lapide fuori casa per Mena uccisa dalla “criminalità”, parteciparono politici ed amministratori.
Quella pietra, davanti alla quale più volte mi sono fermato, mi ha sempre indignato; mancava la parola ancora oggi difficile da pronunciare in certi luoghi e cioè “camorra”. Di Mena abbiamo cominciato negli ultimi anni a parlare in tanti, perchè come diceva un famoso pensatore tedesco, solo chi è capace di guardare al passato può pensare di programmare il futuro.
L’amministrazione comunale le ha dedicato una strada, insieme a un’altra vittima innocente, pure ammazzata per errore (il dott. De Rosa), ma in una zona isolata dove pochi potranno accorgersene.
E’ poco… ma meglio di niente!
Oggi, però, i fratelli faranno apporre una nuova lapide, in cui sarà testualmente scritto che Mena è stata ammazzata dalla camorra, perchè chiunque passi davanti ad essa la smetta di pensare che questo cancro è un problema altrui.
Mena, del resto, non è una eroina e tantomeno voleva esserlo; è nostro dovere ricordarla perchè ha pagato anche per noi, per la nostra distrazione ed il nostro disinteresse rispetto a quanto ci accadeva (ed accade) intorno.