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Mentre morivo di William Faulkner

Creato il 05 febbraio 2012 da Spaceoddity
Mentre morivo di William FaulknerMentre morivo (tit. or. As I Lay Dying, 1930) di William Faulkner è un altro di quei libri che da tantissimi anni mi trascino nella cesta dei desideri. Sia perché si tratta di uno dei romanzi più celebrati dell'autore, sia perché ho un ricordo vivido e commovente di Luce d'agosto, romanzo di grandezza epica per me irripetibile.
Però l'alchimia stavolta non è scattata. Nonostante il titolo accattivante e il ricordo di altri romanzi (successivi), sebbene mi renda conto della dimensione narrativa e della sua novità, non l'ho capito. Avverto un senso di sconfitta, devo riconoscerlo, ma questo Faulkner e in genere, devo ammetterlo, il grande romanzo americano non fanno per me. Trovo che quel paese abbia dato di meglio nella narrativa breve.
Intendiamoci: Mentre morivo è proprio un saggio di prosa della miglior penna e, nella sua struttura di sguardi che si susseguono, si riescono a definire voci interessantissime. Specialmente Addie Bundren, la donna di cui si racconta la lunga e travagliatissima sepoltura fuori paese, riesce a scatenare una forza espressiva e una vorticosa disperazione che da sole fanno il romanzo. Ma i figli (Cash, Darl, Jewell, Dewey Dell e il tenero Vardaman), il marito (lo squallido, mefitico Anse) e gli amici Cora e Tull, tutto il paese parla di questa morte e delle sue conseguenze sfrangiando la visuale e la storia, come se non avesse un suo sviluppo.
Immagino il senso di cui William Faulkner ha voluto caricare questa sua opera. Ne sento echi della costellazione letteraria in cui si è soliti includerlo, fino a riconoscere qui una originalissima tensione psicologica (anche rispetto ai vari scrittori e drammaturghi americani contemporanei). Però non posso fare a meno di pensare che queste frasi spezzate, questi silenzi, questa scrittura orale e formulare di nuovo conio si spingano fino a un contorsionismo narrativo estraneo perfino ai miei momenti più drammatici.
Purtroppo, nel leggere Mentre morivo, che mi ha stancato e in certi momenti anche irritato, troppe voci hanno fatto interferenza. Quando mi accade questo, quando la mia mente si abbandona ai come in, o come per, quando devo rileggere una frase più volte per coglierne il senso nel romanzo, è perché la mia sensibilità non mi segue nella prova. Mi manca qualcosa, ma l'attesa non m'ha portato nulla.
Mentre morivo di William Faulkner
La storia c'è: c'è la spaventosa e desolata provincia americana, la sua campagna, i paesi lontanissimi. C'è una donna che muore, tra l'indifferenza del marito e la fame di qualche guadagno dei figli. C'è una bara da ultimare, da chiudere, e ci sono case e comunità da proteggere dal temporale e dalla piena di un fiume; ci sono ponti che crollano e secche dove si sprofonda. In sostanza, ci sono tanti chiodi da battere.
C'è il pensiero di Dio, di Dio che non c'è o di Dio che c'è, un Dio comunque ritagliato a misura dei protagonisti (come accade nel diversissimo capolavoro di Steinbeck, Al dio sconosciuto). Ci sono coprotagonisti che appaiono e scompaiono, parlano e tacciono, si presentano e spariscono dietro la cortina di nuove pagine. Altre vicende a margine, cose che si dovrebbero sapere (oppure no).
C'è l'idea forte che una vita, la più vicina, è una vita diversa a seconda di chi ne racconta la storia. E che anzi una vita non ha una storia, ma solo dei narratori. E magari dei narratori che non si preoccupano di essere coerenti a sé stessi. Ma non quadra, non funziona con me questa struttura centrifuga, che si disperde in mille diramazioni. E poi, lo dico, va bene, lo dico: è la vita che vi si disperde in mille rivoli e si prosciuga e il romanzo di Faulkner è piuttosto un mentre moriamo. E io me la racconto in altro modo.


(Va bene, questa storia rimane per me.)

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