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Però l'alchimia stavolta non è scattata. Nonostante il titolo accattivante e il ricordo di altri romanzi (successivi), sebbene mi renda conto della dimensione narrativa e della sua novità, non l'ho capito. Avverto un senso di sconfitta, devo riconoscerlo, ma questo Faulkner e in genere, devo ammetterlo, il grande romanzo americano non fanno per me. Trovo che quel paese abbia dato di meglio nella narrativa breve.
Intendiamoci: Mentre morivo è proprio un saggio di prosa della miglior penna e, nella sua struttura di sguardi che si susseguono, si riescono a definire voci interessantissime. Specialmente Addie Bundren, la donna di cui si racconta la lunga e travagliatissima sepoltura fuori paese, riesce a scatenare una forza espressiva e una vorticosa disperazione che da sole fanno il romanzo. Ma i figli (Cash, Darl, Jewell, Dewey Dell e il tenero Vardaman), il marito (lo squallido, mefitico Anse) e gli amici Cora e Tull, tutto il paese parla di questa morte e delle sue conseguenze sfrangiando la visuale e la storia, come se non avesse un suo sviluppo.
Immagino il senso di cui William Faulkner ha voluto caricare questa sua opera. Ne sento echi della costellazione letteraria in cui si è soliti includerlo, fino a riconoscere qui una originalissima tensione psicologica (anche rispetto ai vari scrittori e drammaturghi americani contemporanei). Però non posso fare a meno di pensare che queste frasi spezzate, questi silenzi, questa scrittura orale e formulare di nuovo conio si spingano fino a un contorsionismo narrativo estraneo perfino ai miei momenti più drammatici.
Purtroppo, nel leggere Mentre morivo, che mi ha stancato e in certi momenti anche irritato, troppe voci hanno fatto interferenza. Quando mi accade questo, quando la mia mente si abbandona ai come in, o come per, quando devo rileggere una frase più volte per coglierne il senso nel romanzo, è perché la mia sensibilità non mi segue nella prova. Mi manca qualcosa, ma l'attesa non m'ha portato nulla.
La storia c'è: c'è la spaventosa e desolata provincia americana, la sua campagna, i paesi lontanissimi. C'è una donna che muore, tra l'indifferenza del marito e la fame di qualche guadagno dei figli. C'è una bara da ultimare, da chiudere, e ci sono case e comunità da proteggere dal temporale e dalla piena di un fiume; ci sono ponti che crollano e secche dove si sprofonda. In sostanza, ci sono tanti chiodi da battere.
C'è il pensiero di Dio, di Dio che non c'è o di Dio che c'è, un Dio comunque ritagliato a misura dei protagonisti (come accade nel diversissimo capolavoro di Steinbeck, Al dio sconosciuto). Ci sono coprotagonisti che appaiono e scompaiono, parlano e tacciono, si presentano e spariscono dietro la cortina di nuove pagine. Altre vicende a margine, cose che si dovrebbero sapere (oppure no).
C'è l'idea forte che una vita, la più vicina, è una vita diversa a seconda di chi ne racconta la storia. E che anzi una vita non ha una storia, ma solo dei narratori. E magari dei narratori che non si preoccupano di essere coerenti a sé stessi. Ma non quadra, non funziona con me questa struttura centrifuga, che si disperde in mille diramazioni. E poi, lo dico, va bene, lo dico: è la vita che vi si disperde in mille rivoli e si prosciuga e il romanzo di Faulkner è piuttosto un mentre moriamo. E io me la racconto in altro modo.
(Va bene, questa storia rimane per me.)
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