Corti celate dietro possenti portoni. Antichi palazzi nobiliari. Passi felpati qua e là.
Una lenta, tiepida pioggia si posa e plasma una quasi notturna Firenze.
Ore sette e trenta del mattino. Palazzo Pitti. Palazzina della Meridiana.
Estese gradinate si snodano l’una dopo l’altra conducendo alla Galleria del Costume.
“Donne protagoniste del Novecento”: è il titolo della mostra.
Donna Franca Florio, Susan Nevelson (mano creativa di Ken Scott), Lietta Cavalli, Maria Cumani (ispiratrice e consorte di Salvatore Quasimodo), qualcun’altra, poi Lei.
Lei e le sue tuniche dalle linee pulite, autorevoli.
Ambiziose quanto la semplicità.
Tuniche che palesano coprendo, svelano custodendo.
Ammantano di forza misteriosa. Surclassano con noncuranza la vanità.
E ancora lei e i suoi mantelli.
Meno di un pugno di esemplari, realizzati dallo spagnolo Mariano Fortuny, colpiscono come un ceffone inatteso.
Satin damascato celeste chiaro, blu oltremare, bianco come il candore di neve vergine.
Attrice, anticipatrice, istrionica amante. Icona.
Eleonora Amalia Duse.
Sguardo malinconico, tristezza atavica.
Esordisce nella compagnia di famiglia a quattro anni nel ruolo di Cosette.
Costretta a mendicare il pane quotidiano, lontana dal prosaico mondo borghese, orfana di madre a soli quindici anni. Non potendosi permettere un abito per onorare il lutto, risolve con un nastro nero annodato al collo. Cresce così: solitaria, sola.
Intrisa di talento. Colma di bramoso desiderio di riscatto per essere stata a lungo relegata ai margini di una società infinitamente uguale a se stessa.
Colpita nella propria incolpevole vulnerabilità, reagisce con ardore crescente.
Studia Eleonora, si inchina al sapere, ne assorbe quanto più possibile. Poi si piega a se stessa, esprimendo al meglio la propria autenticità.
Inebriante e persuasiva, riesce a conquistare folle in ogni dove, pur recitando nella propria lingua madre.
“Una donna che ogni sera ti prendeva il cuore e te lo strizzava come un fazzoletto”: Giovanni Emanuel, attore del tempo.
Lei non si trucca, non indossa gioielli, ignora noncurante il busto.
Non è artefatta. E’ scostumata. Assume con disinvoltura pose maschili. I gomiti posati sulle ginocchia aperte, o le mani appoggiate sui fianchi.
Non ha limiti e indossa gli abiti di scena nella vita quotidiana.
Viene coperta con ampi mantelli damascati dalle maniche a pipistrello, con tuniche in crespo, intarsiate in argento, da Paul Poirot, Maison Worth, Mariano Fortuny che veste anche Isadora Duncan.
Ama il bianco. Tonalità che sceglierà in tutte le sue declinazioni per interpretare il personaggio di Marguerite Gautier ne’ La signora delle camelie.
Adora la sinuosità dei pepli greci. Ne avrà un modello specialissimo realizzato, apposta per lei, da Mariano Fortuny. Un plissè d’impalpabile leggerezza, tale da poter essere infilato in borsetta e poi tirato fuori senza sciuparsi. E poi chiede il colore del lago di Pallanza delle quattro del pomeriggio per un mantello di scena.
E ancora Eleonora suggerisce modelli, dichiarando con meticolosa dovizia cosa le piace. Come quando vuole che si tragga ispirazione da una veste della Madonna, scovata nel monastero di San Maurizio, a Milano.
Per tutta la vita indosserà il panciotto di velluto rosso di suo nonno Luigi, mai conosciuto, anch’egli attore.
E’ appassionata, Eleonora.
Gira da sola di notte per le strade di Torino in cerca dell’amore che non trova.
Dopo il loro primo incontro vagheranno entrambi nella notte per le strade di Venezia,
rincontrandosi poi per caso il mattino, nei pressi di una gondola.
“Un’incontro di anime”: affermerà lei.
Dissolvente. L’amore che rade il cuore.
“Vorrei possederti come solo la morte possiede”: scrive lui a lei.
Dopo dieci anni di lontananza, ormai disintossicata dal dolore del tradimento,
lei scrive a lui: “Figlio, un saluto, un augurio. Vivere costa, quanto morire”.
Come sempre: lo ama.