Cosa intendeva Marx per socialismo e per comunismo? La domanda può sembrare alquanto ridondante, data l’enorme mole di lavori e testi sull’argomento, prodotti negli ultimi 150 anni (dalla pubblicazione de Il Capitale in poi), seguiti da interminabili dibattiti e discussioni in ogni sede possibile ed immaginabile, dal partito al manicomio. Un tempo più che sufficiente per venire a capo della questione, posta da Marx in termini scientificamente chiari che, proprio perché tali, delegittimano, agli occhi dello studioso attento, i giochi di prestigio di certi intellettualoidi sempre in vena di interpretazioni così originali da diventare strambe e da distanziarsi anni luce dalle sue ipotesi principali.
Per Marx il tema ruota intorno alla formazione del cosiddetto “lavoratore collettivo cooperativo”, come viene definito da Gianfranco La Grassa, ovvero il General Intellect, soggetto unificato che si forma nel processo produttivo capitalistico, in quanto aggregazione delle potenze del braccio e della mente (dal dirigente all’ultimo giornaliero), a livello della fabbrica. Perché avviene questa associazione? Per motivazioni del tutto oggettive legate alla stessa dinamica capitalistica la quale, nella sua evoluzione storica, finisce col generare un nuovo rapporto interclassistico nelle viscere medesime del processo di (ri)produzione della sua base materiale. Non a caso, nel III Libro del Capitale Marx scrive: “Questo significa la soppressione del modo di produzione capitalistico nell’ambito dello stesso modo di produzione capitalistico, quindi è una contraddizione che si distrugge da se stessa, che prima facie si presenta come semplice momento di transizione verso una nuova forma di produzione. Essa si presenta poi come tale anche all’apparenza. In certe sfere stabilisce il monopolio e richiede quindi l’intervento dello Stato”.
Marx vede la socializzazione delle forze produttive pienamente in atto nella sua epoca e ne descrive l’esito “inevitabile”, verso un determinato tipo di superamento che avrebbe consentito alle medesime forze di rompere l’involucro dei vecchi rapporti di produzione per approdare ad una “nuova società”. Con la centralizzazione massima dei capitali, la proprietà è sempre più assenteista rispetto alla produzione vera e propria, si “rentierizza”: <<i proprietari di capitale [si trasformano]… in puri e semplici capitalisti monetari. Anche quando i dividendi che essi ricevono comprendono l’interesse e il guadagno d’imprenditore, ossia il profitto totale (poiché lo stipendio del dirigente è o dovrebbe essere semplice salario di un certo tipo di lavoro qualificato, il cui prezzo sul mercato è regolato come quello di qualsiasi altro lavoro), questo profitto totale è intascato unicamente a titolo d’interesse, ossia un semplice indennizzo della proprietà del capitale, proprietà che ora è, nel reale processo di riproduzione, così separata dalla funzione del capitale come, nella persona del dirigente, questa funzione è separata dalla proprietà del capitale. In queste condizioni il profitto (e non più soltanto quella parte del profitto, l’interesse, che trae la sua giustificazione dal profitto di chi prende a prestito) si presenta come semplice appropriazione di plusvalore altrui, risultante dalla trasformazione dei mezzi di produzione in capitale, ossia dalla loro estraniazione rispetto ai produttori effettivi, dal loro contrapporsi come proprietà altrui a tutti gli individui realmente attivi nella produzione>>.
Nella produzione, invece, i salariati, tanto quelli che occupano le posizioni dirigenziali che i gradi esecutivi, si coordinano, indipendentemente dalla proprietà ormai dedita alle mere speculazioni borsistiche, per la gestione dei mezzi di lavoro. Con questa situazione per Marx si realizza il primo gradino della metamorfosi del rapporto sociale che nei suoi fondamenti diviene di tipo socialistico. Quindi, il pensatore tedesco, quando afferma questo concetto, non pensa al socialismo come ad una tendenza valida per i prossimi secoli ma lo percepisce alla stregua di un dato di fatto che inizia a concretarsi già nella società della sua epoca, pensa, insomma, a qualcosa in progress sotto i suoi occhi. Tuttavia, per dare la spallata decisiva al sistema della proprietà privata, occorre altresì che gli espropriati conquistino anche la predominanza nella sfera politica e nel suo perno fondamentale, lo Stato, ancora in mano ai (pochi) capitalisti sopravvissuti alla concorrenza e organizzati in (altrettanto pochi) trust. Questa ri-espropriazione degli espropriatori da parte degli espropriati avviene a vantaggio di tutta la collettività, o della gran massa di essa, e dunque non a beneficio di una sola classe come era accaduto nel passaggio dal feudalismo al capitalismo. Secondo Marx, il processo sarebbe avvenuto abbastanza agevolmente in quanto i capitalisti, ridotti ad un nugolo di finanzieri, non avrebbero potuto opporre molta resistenza nei confronti della maggioranza della collettività, rappresentata dal soggetto intermodale di trapasso, da un modo di produzione distrutto dalle sue intrinseche contraddizioni ad un altro più dinamico e cooperativo, del lavoratore associato, pienamente consapevole del suo ruolo.
Il socialismo (in cui a ciascuno sarebbe andata sola la parte che aveva contribuito a produrre, senza vedersi però estorto nessun plusvalore per “alimentare” i profitti dei ceti superiori), a detta di Marx, esiste già in tali nuovi rapporti di proprietà collettiva che consentono alle forze produttive di riprendere a svilupparsi verso il successivo obiettivo del comunismo, il regno dell’abbondanza, sintetizzato, invece, dall’espressione: “da ognuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”.
In questo passaggio dal socialismo al comunismo anche lo Stato deve necessariamente estinguersi (o essere spezzato), dopo una breve fase di dittatura del proletariato, perché non ha più ragione di esistere in quanto i suoi apparati di coercizione, fulcro decisivo dal quale le precedenti classi dominanti esercitavano il loro imperio su quelle sottoposte, vengono svuotati dei loro compiti. Come afferma La Grassa: <<Lo Stato, in quanto organo di coercizione e repressione, doveva sussistere solo per impedire sussulti delle classi spodestate (che mantenevano in particolare vasti legami con l’esterno della società in cui si fosse verificata la rivoluzione) e per assecondare l’esaurimento – il cui evolversi doveva però essere assicurato da meccanismi oggettivi intrinseci alla conduzione dei processi produttivi – anche delle ultima vestigia delle suddette “contraddizioni all’interno del popolo” (in definitiva, quelle tra braccio e mente, tra lavoro esecutivo e potenze mentali della produzione, ecc.). Il necessario coordinamento organizzativo generale della produzione complessiva di un dato sistema sociale (in pratica, un paese) non doveva per nulla essere imposto dall’alto, con la forza e la coercizione, da un particolare organo (pianificatore) dello Stato (inteso nell’accezione “classica” datane da Marx, Engels e Lenin, quale strumento di coercizione, repressione, ecc.). Si doveva trattare di un coordinamento effettuato da apparati adibiti ai più generali compiti organizzativi della società nel suo complesso; apparati che avrebbero significato, usando le ben note parole di Engels, “il passaggio dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo alla semplice amministrazione delle cose”. E questa “amministrazione delle cose” da parte di organismi di rappresentanza collettiva – situazione ammessa da qualsiasi marxista – non ha nulla a che vedere con lo Stato in quanto organo di repressione, di coercizione, quindi al servizio di una minoranza che punta a rimettere in sella lo “sfruttamento dell’uomo sull’uomo” >>.
Tutte le persone intelligenti avranno capito che le previsioni marxiane, circa la formazione di questa classe intermodale definita lavoratore collettivo cooperativo, sono state disattese e smentite dalla storia. Motivo per il quale continuare a sperare nel socialismo e nel comunismo diventa una stolta utopia che non ha più nulla a che vedere con le idee scientifiche elaborate coerentemente dal Moro. Soltanto degli zombies possono sperare di riportare in vita la questione addentando da ogni punto il cadavere di Marx. Costui non “bentornerà” perché qualche medium universitario lo invoca spitisticamente per fare carriera. Solo la merda ritorna a galla, spesso sotto forma di mercificazione filosofica. Mettiamo una pietra sopra al passato pur conservando il nucleo delle teorie scientifiche marxiane che ci hanno insegnato molto sul capitalismo di una precedente stagione storica.
Il Futuro è nostro, non del figosofo.