È finita come tutti in Messico temevano. I 43 studenti di Iguala scomparsi il 26 settembre scorso sono morti. Il Procuratore generale Jesús Murillo Karam ne ha dato notizia in conferenza stampa, ricostruendo le ultime ore di vita dei giovani. Consegnati dalla polizia di Iguala ai sicari del cartello dei Guerreros Unidos, i giovani sono stati trasportati verso la discarica di Cocula dove sono stati uccisi ed i loro corpi bruciati.
A raccontarlo sono due dei sicari che hanno guidato le autorità nella discarica e che hanno spiegato i dettagli della notte del massacro. La versione parla della consegna dei giovani, indicati dalla polizia come appartenenti ad un gruppo criminale nemico e che bisognava eliminare per dare un segnale forte ai rivali. I sicari qualche dubbio ce l’hanno: i ragazzi quando vengono fatti scendere dalle camionette protestano, dicono quello che sono, degli studenti che non c’entrano niente con il narcotraffico e la criminalità organizzata. Hanno poi tutto l’aspetto di quello che dicono di essere: degli studenti, appunto. Gli ordini, però, sono ordini. Dalle camionette fanno scendere quelli che si reggono in piedi; quindici, sedici invece nemmeno si alzano perché sono già morti, probabilmente già uccisi dalla polizia. Uno per uno, i superstiti vengono accompagnati verso la parte bassa della discarica, quella che dà verso il fiume e lì vengono uccisi. Poi, i corpi vengono ammassati e dati alle fiamme.
¨In mezzo ai cadaveri abbiamo messo pneumatici, legna, bottiglie plastiche tutto quello che poteva essere infiammabile¨ racconta El Chereje, uno dei killer. ¨Poi li abbiamo cosparsi di diesel o di benzina e gli abbiamo dato fuoco¨. La notte tra il 26 ed il 27 settembre trascorre così, con i turni di guardia per mantenere vive le fiamme. La mattina arriva il camion della nettezza urbana di Cocula carico di immondizia. Con gli AK-47 spianati contro, i due lavoratori vengono obbligati a fare marcia indietro e a tornare in città. Nessuno dei due ha mai detto niente di quell’episodio. La paura è troppa: a Guerrero non serve denunciare. La polizia e i narcos vivono in simbiosi.
Intanto, il giorno avanza. Bisogna aspettare il pomeriggio per poter avvicinarsi ai resti del falò. L’ordine è quello di fare sparire ogni prova, ogni possibile testimonianza che i giovani di Ayotzinapa sono finiti in quella discarica. Allora, si lavora di badile a mettere cenere, ossa, brani di carne bruciata nei sacchi di plastica. Alcuni di quei sacchi vengono buttati nel fiume e lì li troverà la polizia.
Sono bastati solo tre giorni dalla cattura del sindaco di Iguala, José Luis Abarca, per chiarire cosa sia successo ai 43 aspiranti maestri di Ayotzinapa. Brutto tipo, Abarca. Con due cognati nel cartello dei Bertrán Leyva ed un piccolo feudo dove spadroneggiare –Iguala de la Indipendencia, poco più di centomila abitanti a mezza strada tra Acapulco e Cuernavaca- l’anno scorso fece fuori personalmente il rivale politico Arturo Hernández, di Unidad Popular. Gli spara in testa, per togliersi di mezzo non solo chi gli aizza contro contadini e studenti ma per chiarire una volta per tutte chi comanda dalle sue parti. Invece, gli studenti di Ayotzinapa, dove Hernández era insegnante, non ci stanno. Continuano a vessare il sindaco, a manifestargli contro, a indicarlo come assassino e narco. Gli studenti di Ayotzinapa hanno bisogno di una lezione ed il 26 settembre, quando vanno a fischiare il discorso della moglie, anche lei nella narcopolitica, Abarca scatena l’inferno nelle strade di Iguala. Ci sono sei morti ed una trentina di feriti, negli scontri provocati dalla polizia che è sul libro paga dei Guerreros Unidos. Ma peggio ancora, sparisce un bus con 43 studenti. L’ha intercettato la polizia fuori città, prima sbagliando autobus (prendendo di mira quello della squadra di calcio di Chilpancingo ed uccidendo un giocatore), poi scoprendo quello giusto. Da quel momento, il Messico ha cercato gli studenti per quaranta giorni. Li ha ritrovati dove finiscono i desaparecidos in questa terra senza legge: in un botadero.
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