Metropia s’inserisce perfettamente nell’antica, e spesso fatiscente, diatriba di una certa critica cinematografica, che racconta la battaglia del mito della narrazione contro l’immagine, o viceversa. Oggi – e solo oggi – anch’io ne farò parte, sostenendo in questo specifico caso come l’immagine sia la figlia prediletta dell’evoluzione cinematografica.
Utilizzando una personalissima tecnica, composta da una fusione perfetta tra una reductio ad absurdum e il metodo maieutico (metodo socratico), cercherò di spiegare il perché questo film è da ritenersi positivo. Abbandonerò (subito) questo meccanismo per riavvicinarmi allo spirito baziniano del sentimento e della ragione a me più consono.
Ci sono dei presupposti reali del motivo di questo mio atteggiamento: infatti se dovessimo analizzare Metropia soltanto attraverso i canali narrativi, la valutazione sarebbe veramente poco incoraggiante e molto severa. Purtroppo il film è abbastanza deludente su questo piano, imitando maldestramente grandi classici, per poi ricostruire un puzzle mancante di sensati colpi di scena. La funzionalità del rapporto causa ed effetto si srotola sotto i colpi dell’inutilità narrativa, inoltrandosi nel banale più che nel velato e non detto. La trama non è sospesa per avere strade alternative di significato ma è semplicemente mal costruita.
Metropia è un film su una cospirazione in perfetto stile noir-fantascientifico, ambientata in un futuro distopico simile a quello creato da Orwell. Come tutti i film che appartengono a questo genere, anche qui ritroviamo elementi comuni e ben contraddistinti: il maltempo quotidiano accompagnato dal freddo e pioggia; l’uomo normale al centro di eventi più grandi di lui; la femme fatale imparentata con il villain di turno; l’organizzazione criminale, Trexx, desiderosa di controllare il mondo attraverso l’utilizzo di una nuova droga – in questo caso lo shampoo – costituita da componenti elettronici che riducono ogni essere vivente a un soggetto monitorabile.
Tralasciando l’evolversi della trama, cosa rimane di così affascinante in questo film d’animazione? Direi che la risposta è tutto, o almeno tutto il resto.
Abbiamo fin dalle prime immagini una strana sensazione, un sentimento di sorpresa per qualcosa di mai visto prima. L’utilizzo di questa straordinaria capacità illustrativa è costruito su due distinte caratteristiche: da una parte, quella del realismo fotografico della costruzione dei personaggi e dall’altra, una stilizzazione bizzarra e innaturale del design. L’effetto finale è veramente particolare; molte inquadrature sembrano provenire dalla realtà di un live action, sorrette però dall’espressività che solo l’animazione classica può donare. Se durante il corso della storia non incontriamo mai una giusta dose di consapevolezza narrativa, nella messa in scena invece rimaniamo affascinati dalla bravura del regista nel creare un mondo così simile alla pesantezza che vive il personaggio principale. Grava su tutto una sensazione di torpore ben orchestrato da un’animazione lenta, grigia e finalmente funzionale alla creazione. L’effetto delle tre dimensioni è percepito, ma ben presto schiacciato dalla forza della bidimensionalità.
Metropia è principalmente un’opera visuale, che ha il potere di far interrogare lo spettatore su una domanda: come può un’animazione essere e apparire irreale?
Avremo modo di tornare prossimamente su questo quesito. Adesso devo riappropriarmi della consapevolezza critica, del giusto ed equo peso della visione e della narrazione.
Raffaello Ruggeri