Tra il 21 e il 25 settembre scorsi si è tenuto a Diyarbakır il Mezopotamya Sosyal Forum (MSF). Attivisti sociali, giovani rappresentanti politici, semplici curiosi, giornalisti provenienti da tutto il Medioriente si sono dati appuntamento ad Amed/Diyarbakır per discutere i problemi che il Medioriente vive da moltissimi anni. Per una volta questa regione non è stata considerata nelle sue entità nazionali, coi loro confini artificiali che tagliano con violenza popoli e storie, generando conflitti e rivendicazioni che sembrano non avere mai fine. Per una volta si è considerto il Medioriente dal punto di vista della geografia umana, si è visto come questa regione abbia, nella sua multietnicità e multiculturalità, un’omogeneità di fondo. Così i problemi del popolo curdo si sono incontrati con quelli del popolo palestinese, la rabbia del popolo siriano coi movimenti giordani, la giovane sinistra turca si è confrontata con l’eperienza dei giovani egiziani o iraniani. Ovunque veniva fuori come il vero problema mediorientale, molto a monte rispetto alle diversità religiose o etniche, sia l’imposizione, tramite la forza militare e l’occupazione territoriale, di un sistema economico che obbedisce alle richieste del capitalismo occidentale e che si appoggia o a regimi repressivi e tirannici, oppure a democrazie fortemente militarizzate come Turchia e Israele.
La questione curda ha avuto ovviamente il ruolo da protagonista. Le recrudescenze militari che si sono vissute in estate e che ancora non accennano a placarsi in questo inizio d’autunno, hanno reso ancora più urgente l’elaborazione di soluzioni e di proposte. Mentre però sui media turchi, quando si parla di questione curda, si parla quasi solo di bollettini militari, atti terroristici e rapimenti, qui al MSF si discuteva esclusivamente dei problemi di fondo che generano il conflitto, lasciando la guerra a chi ha voglia di farla e costruendo la pace esercitandola. Quattro grandi tende tematiche, piantate attorno agli edifici del Sümer park, nei quali si svolgevano meeting e conferenze e cineforum, hanno aiutato a focalizzare sui temi principali che il popolo curdo, e assieme ad esso, la società civile mediorientale (ma anche europea, americana, etc), ha a cuore: 1- la lingua; 2- l’ecologia; 3- i giovani; 4- le donne. In queste quattro tende, per quattro giorni, si è discusso caldamente, sono state esposte ricerche ed esperimenti e son state lanciate proposte concrete di soluzione. La tenda della lingua prendeva di petto il problema del non riconoscimento ai curdi da parte della Repubblica di Turchia dell’educazione in madre lingua. Mentre insegnanti e psicologi descrivevano i traumi e gli impedimenti che l’intraprendere a sei anni la scuola in una lingua sconosciuta crea negli studenti curdi, altri ricercatori, dopo aver analizzato i modelli educativi plurilinguistici di mezzo mondo, proponevano al governo esempi concreti e funzionanti. Personalmente ritengo che attorno al problema della lingua ruoti il nucleo principale della cosiddetta questione curda; una volta risolto questo, con un riconoscimento doveroso di un diritto fondamentale, buona parte del conflitto non avrebbe più ragione di esistere. Nella tenda ecologica, associazioni provenienti un po’ da tutto il mondo, si sono concentrate sulla questione del diritto all’acqua e alla terra. L’italiana “Un ponte per…” ha potuto raccontare la vittoria del referendum dello scorso 12 giugno. Si sono analizzati modelli di città ecologiche, di villaggi autosufficienti, modelli di costruzione secondo procedure tradizionali rispettose dell’ambiente.
Lo sviluppo economico che sta facendo volare la Turchia, si basa anche su una speculazione edilizia arrembante che sta riempiendo l’Anatolia di cemento in maniera del tutto sconsiderata, per cui ripensare modelli di architettura più rispettosi è importante e urgente per i popoli che vivono in questi territori. Per non parlare poi del sistema di dighe e centrali idroelettriche che da anni ormai sta devastando i territori del est turco, sommergendo e distruggendo patrimoni archeologici millenari (e universali, dato che risalgono ai tempi della nascita della civiltà), squilibrando ecosistemi in cui uomo e natura vivevano in “collaborazione” per creare un sistema in cui l’uomo sfrutta la natura, e le risorse sfruttate si concentrano nelle mani di pochi uomini, ovvero di coloro che costruiscono e gestiscono le dighe. La tenda dei giovani era occupata dai gruppi della sinistra universitaria che si metteva a confronto coi loro coetanei, siriani, giordani, libanesi, egiziani. Prendevano consapevolezza delle possibilità organizzative rivoluzionarie offerte dalla rete e tornavano anch’essi su questioni di diritti non riconosciuti, coma ad esempio il diritto all’obiezione di coscienza. Il mancato riconoscimento di questo diritto, lascia capire molto di come la Turchia ami risolvere i problemi, interni ed esterni, che gli si pongono davanti. La forte militarizzazione della società e del potere portata dal golpe dell’80 ancora non è stata intaccata nei suoi pilastri portanti, come appunto la leva militare, mentre lo scontro ai vertici fra il governo di Erdoğan e lo stato maggiore dell’esercito ha fatto registrare pesanti sconfitte da parte di quest’ultimo. Nella tenda delle donne si proponevano soluzioni alla condizione di subalternità vissuta dalla donna in medioriente, così come nel sud-est della Turchia. Attaccando la tendenza a farne sempre di più un problema culturale e religioso, si è dimostrato come alla base di questa condizione non ci siano altro che motivazioni economiche. Le donne iniziano a strutturarsi in cooperative di lavoro, che possano garantire loro indipendenza dagli uomini. Fa grande piacere poter segnalare la collaborazione di otto donne italiane (attiviste, educatrici, ricercatrici, sarte) con una cooperativa di donne di uno dei quartieri più poveri di Diyarbakır (Bağlar). Nell’ambito del Social Forum è stato messo su un atelier in cui le donne entravano in contatto, si scambiavano storie, conoscenze, saperi, mestieri, producendo vestiti, diciamo così, a tradizione “mista”.
Sarebbe impossibile dar conto dei più di 2000 interventi che nel frattempo avevano luogo nelle sale interne. Più di 170 le organizzazioni rappresentate, con interventi in turco, curdo, inglese, arabo, spagnolo etc. Si andava dalla discussione delle carte e delle sentenze internazionali sul concetto di genocidio, alle proposte di boicottaggio delle imprese israeliane avanzate congiuntamente da attivisti palestinesi e israeliani; dai racconti della primavera giordana, siriana, egiziana, alla ricerca del riconoscimento internazionale dei crimini di guerra perpetrati contro i curdi dall’esercito turco e dal quello iracheno ai tempi di Saddam Hussein; dalle tombe di massa che infestano il sud-est turco al ricordo di Halapja, in Iraq, dove nel 1988 in tre ore morirono circa 5000 persone sotto il gas nervino lanciato dagli elicotteri iracheni. Uno dei temi principali è stata la Palestina. E non poteva essere altrimenti, visto che negli stessi giorni Abu Mazen presentava all’Onu la storica richiesta d’ammissione. Quasi tutti i partecipanti hanno voluto allertare il pubblico contro le operazioni mediatiche del governo turco, che negli ultimi tempi ha cercato di “appropiarsi” della questione palestinese, ergendosi a paladino dei diritti umani e difensore urbi et orbi del credo musulmano; mentre anche Israele strumentalmente offre aiuto strategico ai curdi. Tutti gli attivisti, i politici e i giornalisti presenti hanno tenuto a precisare come gli interessi strategici fondamentali nella regione di Israele e Turchia siano largamente coincidenti e, di conseguenza, come la lotta del popolo curdo sia essenzialmente sorella di quella del popolo palestinese: entrambi combattono contro due forze che, in maniera internazionalmente accettata, come nel caso della Turchia, o contravvenendo ad ogni risoluzione internazionale, come nel caso di Israele, sono forze occupatrici: colonialmente (Israele) o culturalmente (Turchia), a colpi di assimilazione.
Fuori nel parco risuonavano canti, balli, spettacoli di teatro di strada. Le cooperative delle donne vendevano i loro cibi saporiti e le piccole case editrici curde vendevano i loro libri all’ombra degli stand. Una cooperativa di Viranşehir nel frattempo si impegnava a costruire nel parco una casa ecologica di terra, calce e rena, che ospiterà la vendita di prodotti locali. A pochi metri dalla “Casa del Sole”, un edificio che funziona al 100% ad energia solare. Ogni tanto il rombo arrogante degli F-16 che decollavano dall’aeroporto poco distante, facevano scendere un’ombra inquieta sugli sguardi dei partecipanti, ma poi la musica di flauti e tamburi spazzava via tutto. Le Madri della Pace, che come le madri argentine di Plaza de Mayo, da anni, ogni sabato davanti al Liceo Galatasaray di Istanbul, chiedono di conoscere le sorti dei loro desaparecidos, si sono viste bloccare una fiaccolata pacifica dall’arroganza della polizia. Ma non ci sono stati scontri; più che per la rabbia, al Forum c’era posto per la speranza. La questione curda ha saputo porsi al centro di una vasta gamma di questioni che attraversano il medioriente e per una volta le istanze sociali di una regione cruciale per gli equilibri mediterranei e mondiali, si sono conquistate la ribalta a discapito delle tattiche diplomatiche, della retorica del terrorismo e dei bollettini militari.