Mi laureai con lode e questo migliorò il mio status agli occhi di Mama e Papa, ma quando parlavo con loro si dava per scontato che ero comunque una delusione. Siccome da bambino (come da adulto) mi ammalavo spesso e mi gocciolava il naso, mio padre mi chiamava Sopljak, Moccioso. Mia madre stava elaborando un'interessante fusione di inglese e russo e, di sua iniziativa, aveva coniato il termine Failurča, ovvero Piccolo Fallimento
Per parlarvi di Mi chiamavano piccolo fallimento di Gary Shteyngart, pubblicato in Italia di Guanda con la traduzione di Katia Bagnoli, devo iniziare da Jonathan Franzen.Un giorno ho visto un intervista fatta a Jonathan Franzen in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo, Purity. In quel video, lo scrittore, dai più considerato misantropo e antipatico, mi è sembrato semplicemente un orsacchiotto goffissimo e timidissimo, simpatico a modo suo, ma non sempre in grado, come succede a tutti i timidi d'altronde, di trasmettere questa sua simpatia agli altri. Mi sono poi messa a chiacchierare di questa mia impressione con Holden & Company e lui mi ha girato un video, in cui c’è un cameo di Jonathan Franzen. Quel video era, ovviamente, il book trailer di Mi chiamavano piccolo fallimento.
Inutile dire che, dopo averlo visto, oltre a provare ancor più simpatica per Jhonny, ho deciso che avrei dovuto leggere quel libro.
Mi chiamavano piccolo fallimento è l’autobiografia di Gary Shteyngart, scrittore nato a Leningrado e trasferitosi con i genitori a New York quando aveva sette anni. Gary è un bambino malaticcio, che soffre di continue crisi d’asma, e che, all'inizio, mal si adatta alla sua vita americana. È figlio di migranti, che pur iniziando a lavorare e a farsi una vita in America, proprio non ne vogliono sapere di abbandonare la lingua e le tradizione del loro paese natio. Gary va a scuola ed è un emarginato, ha pochi amici, figuriamoci ragazze, e si accanisce contro chi è ancor più debole di lui. Ma è anche un ragazzino ricco di talento per la scrittura, che diventerà fin da subito la sua forma di riscatto. Poi Gary cresce, le cose un po’ cambiano, si fa amici, si innamora e si scrive a un’università umanistica, perché la scrittura rimane la sua strada. Beve un po’ troppo, fuma un po’ troppo, segue una strada non proprio buona, tra mentori che da lui vorrebbero qualcosa di più e donne pazze, pronte a prendere chiunque a martellate, e soprattutto sempre più lontano dai genitori, che forse non lo capiscono o che forse è lui a non capire. Finché non arriva la pubblicazione del suo primo romanzo e, soprattutto, il suo ritorno in patria dopo anni e anni di assenza. Dove tutto è cominciato.
La prima cosa che ho apprezzato di Gary Shteyngart è stata la sua incredibile ironia e autoironia, anche nei momenti più difficili. Soprattutto quando era bambino, un bambino malaticcio che soffre di vertigini e che con la sua faccia da ebreo fatica ad ambientarsi in un posto così grande come New York. Vuole risalire la scala sociale e diventare un vero americano, perché sa che solo così riuscirà a farsi accettare da tutti, ma al tempo stesso non può e non vuole dimenticare le sue origini, che ne hanno fatto quello che è ora.
La storia è quella di un migrante come ce ne sono tanti, con le difficoltà ad ambientarsi e la voglia di farlo, con un po’ di vergogna verso i proprio genitori, ma al tempo stesso orgoglio per quello che sono riusciti a fare, a cui si aggiunge però la storia, diciamo, editoriale di Gary, di quando ha iniziato a scrivere (e tutti gli scrittori dovrebbero avere una nonna come la sua!) e di come la scrittura, almeno in parte, l’abbia salvato dal vero fallimento.
Permettetemi di ripeterlo: non so fare niente. Non so friggere un uovo, non so preparare un caffè, non so guidare, né fare l’assistente di un avvocato o pareggiare i conti, non so saldare un pannello madre a un pannello maschio, né tenere al caldo e al sicuro un bambino durante la notte. Ma non ho mai avuto il cosiddetto blocco dello scrittore. La mia mente corre alla velocità dell’insonnia. Le parole si mettono nei ranghi come i soldati all'adunata. Mettetemi davanti a una tastiera e riempirò uno schermo.Eppure, nonostante l’ironia e lo stile dell’autore, Mi chiamavano piccolo fallimento è stata una lettura a tratti faticosa. Credo per colpa mia, perché non conoscevo Gary Shteyngart, non ho letto nessuno dei suoi romanzi precedenti, e, di conseguenza, mi sono persa molti dei suoi riferimenti. Forse le autobiografie degli scrittori andrebbero lette quando gli scrittori si conoscono già, per non rischiare, appunto, di perdersi qualcosa per strada, di non capire e di non apprezzare tutto come invece meriterebbe. Bella la sua storia, bella la sua vita, bello il suo modo di raccontare il suo strano rapporto con i genitori. Ma mi è mancato qualcosa.
Per fortuna posso ancora ancora rimediare. E sicuramente lo farò perché secondo me questo Gary Shteyngart se lo merita proprio.
Titolo: Mi chiamavano piccolo fallimentoAutore: Gary ShteyngartTraduttore: Katia BagnoliPagine: 390Editore: GuandaAcquista su Amazon:formato brossura: Mi chiamavano piccolo fallimento