Mi chiamo Federico

Da Tabulerase

Mi chiamo Federico, ma potrei chiamarmi Alessio o Francesca. Sono uno dei tanti ragazzi che alcuni compagni definiscono “diversi”.

Io sono grasso, lo sono da quando ero bambino: una disfunzione ormonale non mi permette di vestire alla moda, mi chiamano “ciccione palla di lardo” tante e tante volte, continuamente. Faccio parte del gruppo degli “sfigati”,  ma sono in buona compagnia. Alessio, ad esempio:  adora le donne, ma le ama in modo particolare. Le ammira, le osserva, è attratto dal loro mondo e a volte le imita, ne emula i gesti e l’abbigliamento. Per lui è una cosa naturale, ma lo chiamano “frocetto” o “piccola checca” tante e tante volte, continuamente.

E poi c’è Francesca, lei è la “ritardata”: ha qualche problema di linguaggio e alcuni disturbi che i professori un giorno hanno definito dislessia e disgrafia. Non so bene che problemi abbia, ma ormai non mi meraviglio più quando si rivolgono a lei dicendole “tonta o mongoloide “ tante e tante volte, continuamente. Oggi è andata abbastanza bene, loro mi hanno solo rubato la merenda e gettato libri e quaderni dalla finestra, ma per fortuna il collaboratore scolastico li ha recuperati.

Alcuni giorni è davvero dura, come quella volta quando mi hanno rinchiuso nel bagno, o quell’altra quando mi hanno riempito lo zaino di escrementi, o quell’altra ancora quando ho minacciato di dire tutto ai professori e mi hanno riempito di insulti, calci e pugni. I professori sono comprensivi, ma spesso troppo distratti: vorrei che facessero più attenzione, che osservassero con maggiore interesse. Il cambio dell’ora diventa un vero incubo, loro vanno via velocemente, li vedo sull’attenti al suono della campanella, sfrecciare nel corridoio da un’aula all’altra, vorrei che si accorgessero di quello che succede. Al colloquio hanno detto alla mamma che sono un ragazzo ansioso, socialmente ritirato, isolato dal mio gruppo dei pari, che sono fragile e vulnerabile. In effetti  io mi sento inadeguato, inappropriato: ho l’impressione di non valere niente, non mi stimo, sento sempre un fortissimo senso di disagio.

Forse loro hanno ragione, forse sono davvero un escremento umano, una persona che non ha alcun diritto di vivere, ma ciò che dicono fa davvero male, ho delle ferite profonde, intime , che non posso mostrare. Non ho il coraggio di denunciare, ho paura e vergogna e poi  i grandi non capirebbero. A volte sembra che nemmeno i miei genitori capiscano: mio padre non fa altro che ripetermi che devo imparare a difendermi da solo, che un vero uomo non chiede aiuto, anche se io ho sempre pensato che il vero uomo è proprio quello capace di confessare a se stesso e agli altri di aver bisogno di sostegno e comprensione. Spesso penso che se fossi come loro sarebbe tutto più semplice: forti, aggressivi, prepotenti, dominanti, vincenti.

Dicono che per poter andare avanti in questa società sia necessario mostrare i denti,mettere da parte la sensibilità e l’emotività, essere cinici e spietati, mostrare gli attributi. Credo che non riuscirò mai a trovar posto in questa società, io sono un debole, un subalterno, un incapace. Vorrei potermi ritirare dalla scuola ma non me lo permettono, continuano a ripetermi che le paure vanno affrontate e che il dolore va attraversato, ma a volte sento che la rabbia e la disperazione si impossessano di me, vorrei urlare e spaccare tutto, ma le grida restano bloccate in gola e la rabbia imputridisce nello stomaco.

Ho sentito parlare del fenomeno del bullismo, una forma di prepotenza e violenza ricorrente e continuativa  che genera sentimenti dolorosi ed angoscianti nella vittima. Forse è proprio il mio caso, forse io, Alessio e Francesca siamo delle vittime e loro sono bulli o  forse loro sono gli adattati e noi i disadattati. In fondo in qualunque campo ci viene richiesto di essere competitivi, di puntare al risultato, al successo, alla vittoria, al traguardo e pochi capiscono che ogni traguardo assume un valore diverso in base alle personalità e alle difficoltà che ciascuno incontra lungo il percorso. In una società che funziona così loro sono gli adattati e noi saremo sempre i disadattati.  In una società così io non ho alcun posto né potrò mai averne alcuno. In una società così io sono nessuno e faccio meglio a scomparire.

Suicidio? Ci ho pensato molte volte, ma serve coraggio anche per quello, o vigliaccheria, chi lo sa?  Ho letto alcuni articoli di ragazzi che si sono trovati nella mia stessa condizione e ho capito tante cose. Ho capito che in realtà i veri disadattati sono loro, che la prepotenza e la violenza nascondono una profonda insicurezza, celano l’incapacità di accettare e riconoscere le proprie paure e debolezze, esprimono il bisogno di accettazione e riconoscimento sociale a tutti i costi. Ho capito che loro sono ovunque, anche nel mondo del lavoro con un nome diverso: dicono che lì non si chiami più bullismo ma mobbing, ma le prevaricazioni sono le stesse, la prepotenza è la stessa, la sofferenza è la stessa. Ho compreso che in una società che istiga fortemente alla competizione questi fenomeni spesso non sono riconosciuti, a volte vengono addirittura giustificati. Ho capito che sono loro ad aver bisogno d’aiuto e che io sono un perfetto adattato, ma in una società migliore capace di accettare le differenze e di considerare la diversità una  risorsa. Io sono Federico ma potrei essere Alessio o Francesca: noi valiamo.


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